Movimento dei Focolari
Da El Salvador in quarantena

Da El Salvador in quarantena

La testimonianza di Rolando, manager di una ditta di San Salvador: preoccupazioni e attese per il suo Paese in tempo di pandemia e la scelta, come famiglia, di vivere per gli altri. Nel Salvador, siamo in quarantena come nel resto del pianeta. La paura, comprensibile ma, a mio parere, sovradimensionata ha guadagnato spazi e con il fine di contenere i contagi si sono incoraggiate misure che vanno contro i diritti umani. Approfittando dell’emergenza si mina la democrazia e, sempre per la paura, buona parte della popolazione esige una mano forte. Così la pandemia ha generato, come misure per combattere il virus, un ritorno verso l’autoritarismo. Un ritorno all’intolleranza, al non dialogo con sentimenti di rabbia e di vendetta. Da aggiungere l’impatto negativo sull’economia con la chiusura delle attività non essenziali, l’alta percentuale dell’economia informale, la riduzione delle rimesse e l’alto livello di indebitamento motivato dall’emergenza. Per me, questa situazione è una desolazione collettiva. Da giovane ho vissuto la guerra civile e, con tante illusioni, l’arrivo del dialogo e la firma della pace. Ho seguito il lento processo verso la democrazia, mai soddisfatto, ma sempre con speranza. Mai avrei immaginato che avrei rivisto le forze armate dominare la scena politica e la rottura dell’ordine costituzionale. È un dolore personale e sociale che, a volte, mi ha fatto perdere l’ottimismo. Penso che ci sarà nel prossimo futuro una crisi economica e sociale che colpirà la democrazia e, in particolare, le persone più vulnerabili. La spiritualità dell’unità che cerchiamo di vivere nella mia famiglia, ci spinge tutti a fare delle azioni concrete in favore di chi ci è vicino. Personalmente, immerso nel telelavoro, cerco innanzitutto di amare Irene, mia moglie, valorizzando lo sforzo che fa per reggere la difficile situazione, aiutandola e coprendo i vuoti, anche perché per la pandemia non ci sono le persone che ci aiutavano in casa. Preparo con gioia le pietanze che piacciono a Roxana, la figlia più giovane, e faccio coraggio a Irene Maria, la figlia più grande, che studia all’estero. Ogni giorno sento i miei genitori e mi occupo dei loro bisogni. Cerchiamo di sostenere e dare serenità alle persone che aiutano in casa, garantendo i loro stipendi, finché riusciremo… Con gli impiegati della compagnia dove lavoro, insieme ad altri dirigenti, stiamo implementando politiche di sostegno economico, facilitando il lavoro a distanza dei dipendenti per garantire il loro posto di lavoro. M’impegno a rapportarmi meglio che posso con il mio team e ad essere comprensivo per la loro minore produttività. Con alcuni esperti delle diverse aree ci scambiamo le esperienze, studiamo la crisi, i modelli economici, lo sviluppo dei mercati, la politica, consapevoli dell’opportunità che ci si presenta per imparare cose nuove e trovare delle idee innovatrici per affrontare il futuro. Senza rendermi conto, le giornate passano in fretta, e una sensazione di pace inonda spesso la mia anima. Continuo a preoccuparmi per la situazione sanitaria del Paese, per la democrazia in pericolo, per l’economia, ma sento, sempre più forte, la forza di continuare a lottare per tenere alti i valori nei quali credo, nonostante che fuori, la tempesta sia forte.

Rolando, El Salvador (Raccolta da Gustavo E. Clariá)

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La sfida quotidiana del diventare famiglia

La storia di due coniugi della Croazia e la loro esperienza nell’ambito del progetto “Percorsi di luce” promosso dal Movimento dei Focolari “Come bambini piccoli che imparano dal nulla, così anche noi imparavamo a capire prima noi stessi, capire i sentimenti, riconoscerli, capire l’altro, imparare che il pensiero diverso non deve finire sempre e per forza in un conflitto. Abbiamo capito che le coppie che ci circondano arricchiscono i nostri rapporti e che bisogna evitare di isolarsi”. Melita e Slavko sono sposati da circa vent’anni, sono genitori e vivono in Croazia. La loro esperienza di coppia la raccontano con schiettezza, senza letture patinate, senza omettere quei momenti di prova che disegnano il loro percorso come una sfida, una “casa” da costruire ogni giorno, spesso senza sapere con quali strumenti. Non un’autostrada diritta da attraversare con una macchina potente, ma una strada sterrata da percorrere in bici col solo motore delle proprie gambe, dei polmoni e del cuore, con salite faticose e discese rigeneranti. Una storia, la loro, che forse somiglia a quella di tante coppie, ma che offre una chiave di lettura non scontata sulla famiglia. L’occasione di questo racconto è la loro partecipazione in Italia ad un incontro nell’ambito del progetto Percorsi di luce, che il Movimento dei Focolari dedica alle coppie, con un’attenzione particolare per quelle che vivono momenti di divisione. In uno dei passaggi più bui del loro rapporto – spiegano – è grazie a incontri come questo che hanno trovato gli strumenti da “usare ogni giorno, perché la nostra famiglia sia contenta e il nostro rapporto cresca”. Strumenti “che facilitano la salita che ci aspetta nella vita di coppia per realizzare i piani di Dio sulla nostra famiglia”. Nelle loro parole emerge chiaro che l’immagine della coppia “perfetta” è una dolorosa illusione. L’aspettativa di un percorso lineare e soleggiato, alimentata dall’entusiasmo che segue l’incontro con la persona “giusta”, si scontra con la realtà di una “partita” tutta da giocare e di cui non si conosce l’esito, dove il compagno di squadra si trasforma a volte nell’avversario e dove si vince solo se vincono entrambi. Una partita che non ha regole scritte ma che va giocata avendo chiaro l’obiettivo, o ritrovandolo se sfuma. Una partita dove ciascuno è chiamato a dare il proprio contributo e a fronteggiare le variabili avverse, senza scorciatoie: “Dalla prospettiva di oggi – dicono – possiamo testimoniare che il matrimonio non è una cosa fissa e statica, che un corso come questo non è una bacchetta magica che risolve tutti i nostri problemi per sempre”. Piuttosto, qui “abbiamo imparato che il nostro primo figlio – il matrimonio – ha bisogno della massima cura e importanza, perché solo quando siamo noi in pace e sintonia possiamo essere capaci di dare amore ai figli e alle persone che ci circondano. Solo così ci realizziamo come persone”. Tutto muove, in effetti, dal sentirsi già realizzati “ai nastri di partenza”. Melita racconta degli inizi: “Era un periodo molto bello, finalmente avevo realizzato il sogno di avere un ragazzo che sapeva ascoltarmi, consolarmi, capirmi. La persona con la quale condividere sguardi simili sulla vita, sulla fede, sull’amore. Presto abbiamo capito che volevamo sposarci coronando il nostro amore con il matrimonio”. A breve però si presenta la prima prova: la perdita di un figlio in arrivo costringe Melita e Slavko a rivedere i loro piani, a concentrarsi sull’organizzazione pratica della vita, sul lavoro e la casa. È un momento proficuo in effetti, dove sperimentano una crescente unità fra di loro e con le rispettive famiglie, condividono tutto – dice Slavko – trovando “la forza, la volontà e il desiderio per le cose comuni”. “Abbiamo idealizzato la nostra vita – aggiunge lei – completando i sassolini del nostro mosaico e aspettando che la famiglia si allargasse”. Dopo tre anni arriva la gioia del primo figlio, ma con essa anche la necessità di trovare un lavoro meno impegnativo e più remunerativo. L’impiego per Slavko arriva ma il nuovo contesto produce nella coppia tensioni, incomprensioni, ferite profonde. “La sicurezza che avevamo costruito e la fiducia dell’uno nell’altra sono spariti – racconta Melita – è iniziato un periodo di insoddisfazione nei nostri rapporti, di rimproveri per gli sbagli fatti. Slavko non si accorgeva della mia insoddisfazione e io non sapevo come fargli presente le cose che mi davano fastidio”. E lui: “Mi ero accontentato della vita, pensando: ma cosa vuoi di più, ci vogliamo bene, ci siamo sposati, la vita va su un binario dritto, perché dovrei ancora dimostrare la mia fedeltà e l’affetto? È lei che non capisce che le voglio bene e le sto accanto. Invece ero sordo alle sue grida e ritenevo che era lei a dover cambiare e accettare le nuove circostanze. In noi cresceva la sensazione di incapacità, di disperazione, cadevamo nell’abisso dal quale non vedevamo la via di uscita”. Li attraversa anche il pensiero di separarsi. Avevano toccato il fondo. Ma in quel deserto pian piano comincia a rifiorire la vita. “In quel momento il Signore ci manda sulla nostra strada i nostri padrini e amici, che come gli altri avevamo cancellato dalla vita, ci manda le indicazioni da seguire tramite loro” ripercorre Slavko. È nel confronto con le altre coppie che partecipavano ai Percorsi di luce che finalmente riescono a intravedere una via d’uscita. “Soli l’uno davanti all’altro e soli davanti a Dio abbiamo cominciato a capire e conoscere di nuovo l’altro, imparato che l’opinione diversa non significa che l’altro non mi ama, anzi abbiamo imparato di nuovo che la diversità arricchisce, ci completa come coppia”. Imparare, scoprire, crescere e consolidarsi come persone e come coppia. È forse questa la conquista inattesa di un cammino autentico e coraggioso, imprevedibile e ricco di prove, ma anche di traguardi e soddisfazioni. Melita e Slavko hanno scoperto che i piani di Dio sulla loro coppia e la loro famiglia non sono affatto scontati ma richiedono la loro determinazione nell’amore reciproco. E hanno imparato che è attraverso questo impegno che l’uomo e la donna realizzano se stessi come persone.

Claudia Di Lorenzi

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Il bello della famiglia

Il bello della famiglia

01/07/2019 Famiglie separate, divorziati, persone in seconda unione, conviventi. Come stare loro accanto? L’impegno di Famiglie Nuove per le coppie sposate e le famiglie in difficoltà. “La famiglia è amore che va e che viene. È condivisione, sostegno e reciprocità. È cura dei figli e luogo di crescita, privilegiato, anche per i genitori. La famiglia è ricominciare sempre”. È così che la raccontano Lucia e Massimo Massimino, quarantenni, sposati da 17, con tre figli. Vivono a Collegno, vicino Torino, e per i Focolari sono impegnati nel Movimento Famiglie Nuove, che offre spazi di dialogo e formazione per le coppie. Li abbiamo incontrati. famiglia MassiminoSi parla oggi solo dei “sacrifici” che costruire una famiglia comporta. Manca invece raccontare qual è il bello della famiglia: cominciamo da qui… Lucia– Il bello della famiglia è sentire che qualcuno ha cura di te e poter dare questa cura. È sentirsi pensati, benvoluti, parte di una comunità. Massimo– Ed è il fatto di condividere la gioia e i dolori, anche con i figli, perché sanno vedere al di là delle parole che dici. È bello che nei tuoi figli la tua vita va avanti. Oggi molte famiglie sono in difficoltà, lacerate o divise. Con Famiglie Nuove vi capita di raccogliere il dolore di molte coppie. Quali percorsi proponete? Lucia– Ci sono crisi che richiedono un accompagnamento momentaneo, queste coppie chiedono di potersi confidare con persone amiche e allora capisci, perché magari l’hai vissuto,  che è solo un passaggio della vita. Di fronte a crisi più gravi accompagniamo le coppie verso scelte che coinvolgono dei professionisti, animati da grandi valori. Massimo– Come Movimento puntiamo molto alla formazione. Io e Lucia ci occupiamo delle giovani coppie e organizziamo incontri dove invitiamo educatori e psicologi con l’intento di offrire strumenti, per esempio per gestire un conflitto. Si tratta di incontri aperti a tutte le coppie, fidanzate, sposate, conviventi o separate. Una formazione che trae ispirazione dal carisma dell’unità di Chiara Lubich, nato in seno alla Chiesa cattolica, ma che è aperta anche a persone di altre fedi o senza un riferimento religioso. Famiglie 2Famiglie separate, divorziati, persone in seconda unione, conviventi. Come porsi di fronte a queste persone? Lucia– Nel Movimento dei Focolari c’è una vera passione per loro. Famiglie Nuove cerca di conoscere queste persone, investe nei rapporti personali, che sono l’unica cosa che può aiutare, e che consentono a noi di comprendere i motivi della rottura, il dolore. Le giornate dedicate alla famiglia sono contesti privilegiati in cui c’è un clima di confronto e nel fallimento si coglie un’opportunità per ricominciare. Se si parla di famiglia si parla di amore. È dunque inevitabile “chiamare in causa Dio” in queste riflessioni? Massimo– Noi sentiamo che il matrimonio rende presente Dio nella nostra famiglia, e in virtù di questa presenza la famiglia vive fra i suoi membri una circolarità di amore che – per citare Chiara Lubich – ricorda quella fra Padre, Figlio e Spirito Santo. Sentiamo che questa presenza ci sostiene anche nei momenti in cui vorresti scappare. È un’esperienza che non si può insegnare, si può solo fare, e che apertamente raccontiamo anche alle coppie non sposate o non credenti. In molti si chiedono: l’amore può finire? C’è una ricetta affinché il “per sempre” duri davvero per sempre? Lucia e Massimo– L’innamoramento finisce ma la parola chiave è ricominciare, e sapersi perdonare. Dà alimento alla coppia il fatto di condividere il percorso matrimoniale con altre coppie, condividere valori importanti e iniziative. E poi è importante ricordare di essere anche marito e moglie, innamorati, non solo papà e mamma.

Claudia Di Lorenzi

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Crescere con i propri figli

Crescere con i propri figli

Scoprire che il proprio figlio ha un disturbo mentale può essere uno choc che può paralizzare la mente e l’agire dei genitori. Oppure può prevalere il desiderio di ascoltare, accompagnare, perseverare, donarsi. Vivere la disabilità crescendo insieme. È la strada che hanno scelto Natalija e Damijan Obadic, sloveni, sposati da 14 anni, genitori di quattro figli. Il più piccolo, Lovro, oggi ha sei anni e tre anni fa gli è stato diagnosticato un deficit di attenzione. Sembrava non ci fossero alternative ai farmaci e ai trattamenti standardizzati. Invece la coppia ha sperimentato che anche la relazione è cura. E potenzia il trattamento. Talvolta individua soluzioni originali. Ma nessun risultato è acquisito definitivamente, anzi il percorso è ogni giorno sfidante. L’unione della famiglia e l’unione con Dio sostengono il cammino. Natalija, come avete reagito alla notizia che vostro figlio soffre di un deficit di attenzione? Ho rivisto davanti a me i bambini con questo handicap che ho incontrato nel mio lavoro di educatrice e i loro enormi problemi. Quel giorno io e Damijan abbiamo capito che l’atto d’amore più grande che potevamo fare per Lovro e per tutti noi era che uno di noi due lasciasse il lavoro. Avevamo un mutuo e stipendi modesti, ma sapevamo che per aiutare Lovro nel modo giusto avremmo dovuto dargli tanto amore, tempo ed energie. È stato molto doloroso, e sentivamo una grande incertezza, ma eravamo sicuri che l’amore di Dio per noi ci avrebbe sostenuto. 738de167 4239 49ae 8658 dc83e81017ecCosa vi insegna l’esperienza con Lovro? Abbiamo imparato ad ascoltarlo fino in fondo. Quando gli dai delle istruzioni devi controllare se le ha colte, seguirlo in ogni azione e farlo ritornare continuamente a quello che deve fare, altrimenti si mette a giocare. Per lui portare a termine un’azione è come scalare la cima di una montagna irraggiungibile e quindi si ribella per non farlo. A volte va in crisi, con un pianto sfrenato, butta via tutto ciò che vede, dà calci e pugni. Allora, con calma e gentilezza, devi trovare il modo per reindirizzarlo a fare quello che doveva fare. Abbiamo imparato che con il nostro amore reciproco è possibile aiutarlo e che l’amore per Lovro ci guida nel capire cosa fare per lui. Come affrontate le difficoltà quotidiane? Ogni giorno preghiamo con lui perché riesca a far fronte alle sue difficoltà. Lui è consapevole di avere un disturbo e questo lo aiuta ad affrontarle. Con il nostro amore reciproco, da soli, riusciamo a seguire le indicazioni degli specialisti. Abbiamo capito che Lovro deve sentire il nostro amore incondizionato sempre. Parlando con lui cerchiamo di trovare il modo per migliorare ogni giorno. Anche gli altri figli sono coinvolti in questa “cura speciale” per Lovro. Che rapporto c’è tra loro? Con gli altri figli abbiamo parlato di cosa fare per lui, cosa pretendere e come perseverare per poterlo aiutare. Siccome la cosa è molto impegnativa abbiamo deciso di dividerci i giorni della settimana. Abbiamo spiegato ai figli che non devono impietosirsi quando chiedono a Lovro di completare un compito, perché così lo aiuteranno a imparare che ha dei doveri e deve portare a termine gli incarichi. Ci hanno aiutato molto e dopo tre mesi abbiamo visto i primi risultati. Una sera abbiamo detto a Lovro di mettersi il pigiama e venire a tavola. Per la prima volta lo ha fatto da solo senza distrarsi. Abbiamo festeggiato!

A cura di Claudia Di Lorenzi

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Nuova Zelanda: quando le culture s’incontrano

Nuova Zelanda: quando le culture s’incontrano

Esther è Maori e Tom è di origini irlandesi e scozzesi. Una storia, la loro, che ribalta il principio dell’incomunicabilità tra culture molto diverse.  Figlio di madre irlandese e di padre scozzese, Tom ha 26 anni quando arriva in Nuova Zelanda, un arcipelago dove il popolo Maori è approdato per primo, seguito da numerose migrazioni, tanto da renderlo un Paese multiculturale. Ci è arrivato con uno dei voli low-cost che i governi britannico e neozelandese offrivano a giovani disposti a fermarsi almeno due anni nelle terre d’oltremare. Esther, invece, è Maori ed è la più grande di 13 fratelli. I due si sono conosciuti in discoteca ed è stato amore a prima vista. “Non ho mai notato che venivamo da due culture diverse”, esordisce Tom, “E io non ci ho proprio fatto caso che lui fosse bianco”, replica lei. “Quando l’ho vista mi sono semplicemente innamorato”, conclude lui. Le complicazioni sono arrivate dopo, quando hanno annunciato alle rispettive famiglie che volevano sposarsi. La madre di lui gli ricorda che non potrà portarla in Inghilterra perché non è bianca e anche la nonna di Esther non era per nulla convinta di Tom. Aveva già scelto un uomo per lei, come aveva fatto prima per sua figlia, la madre di Esther: le tradizioni nella comunità Maori sono forti e difficili da trasgredire. Tuttavia, dopo lo shock iniziale, i genitori di Tom imparano a voler bene alla nuora Maori e anche lui viene accolto dalla numerosa famiglia di Esther. Di comune accordo, i figli vengono battezzati ed educati nella Chiesa Cattolica della quale Esther fa parte e nella quale Tom sente il desiderio di inserirsi. Il primo contatto con i Focolari avviene nel 1982 attraverso padre Durning, il catechista di Tom, un sacerdote scozzese, missionario presso la comunità Maori.  Invitati a trascorrere un weekend con le focolarine, Esther e Tom partono con i figli e non poco batticuore. “Mi sforzavo di leggere la Bibbia – ricorda Tom –, ma non ne traevo beneficio. Mi ha colpito piuttosto una frase che una di loro ha detto: “Cerca di cogliere la presenza di Gesù in chi ti passa accanto”.  Le ho risposto che se lei avesse conosciuto il mio posto di lavoro, le ferrovie, avrebbe concordato con me che non era possibile. Era un ambiente difficile, ma lei ha insistito. Ci ho provato e la mia fede ha ripreso forza e ho trovato quello che cercavo: la possibilità di farla diventare vita”. Alla loro prima Mariapoli[1] Esther e Tom si ritrovano ad ascoltare persone che condividono esperienze e vicende personali “lette” alla luce del Vangelo e ne rimangono colpiti. “La nostra, però, non era una vicenda semplice da raccontare – spiega ancora Esther – perché Tom aveva iniziato a bere, un’abitudine presa sul lavoro”. “Una sera, mentre stavo per prendere una birra – continua Tom – Esther mi ha chiesto cosa stessi per fare.  Ho capito che non potevo continuare a vivere così; avevo una moglie e quattro figli. L’alcolismo stava distruggendo la nostra famiglia, così ho deciso di smettere”. Ma la vita di una famiglia come la loro non era mai monotona e succedeva che, superata una sfida, se ne presentava subito un’altra. Accade così che, in seguito ad un incidente, Tom è costretto a lasciare il lavoro e decidono quindi di scambiarsi i ruoli: “Esther andava a lavorare e io restavo a casa a badare ai bambini”, racconta Tom. “Ho dovuto imparare a fare tante cose e anche la difficile ‘arte’ di amare a casa propria. Per gli amici la nostra era una scelta totalmente contro corrente e non possiamo dire che sia sempre andato tutto liscio, ma pur tra alti e bassi, ci siamo sempre trovati uniti. Anche quando abbiamo punti di vista diversi, o quando mi impunto su un’idea, mi ricordo che Chiara Lubich ci ha insegnato ad amare sempre per primi, a chiedere scusa e a non perdere il coraggio di amare”. “Da 46 anni la spiritualità dell’unità è diventata il nostro stile di vita quotidiano” – conclude Esther. “Ho capito che Dio ci aveva dato una vita bella, mostrato una meta alta e donato la fedeltà per raggiungerla; a noi, ora, andare avanti”.

Gustavo E. Clariá

  [1] L’appuntamento storico dei Focolari: un incontro di più giorni per tutti, bambini, giovani, famiglie, per conoscere e fare esperienza della spiritualità dell’unità. (altro…)

Non potevo tirarmi indietro

A volte sono le relazioni più prossime quelle più difficili. È l’esperienza di Miso Kuleif e del suo papà. “Con mio padre ho sempre avuto un rapporto difficile, né io né il resto della famiglia siamo mai riusciti ad andare d’accordo con lui e ne abbiamo sofferto moltissimo. Eppure, in un preciso momento della mia vita, ho fatto una scoperta: lui mi voleva bene veramente e anche io gliene volevo”. Esordisce così, Miso Kuleif, 24 anni, nata in Giordania, che da oltre venti anni vive in Italia con la sua famiglia. Il padre di Miso per molto tempo ha avuto gravi problemi di salute, ma la svolta avviene circa tre anni fa quando apprende di dover fare con urgenza un trapianto di fegato. Poiché in Giordania, a differenza che in Italia, è possibile fare questo tipo di operazioni anche con un donatore vivente, il padre sceglie di operarsi nella sua terra d’origine. “Il problema – continua Miso – era trovare un donatore e quindi persone disposte a fare i controlli di compatibilità. Quando l’ho saputo, non ci ho pensato molto. Sono partita con lui per sottopormi agli esami”. “Dove ho attinto forza? Mi ha aiutato il vivere da alcuni anni la spiritualità dell’unità – spiega -. Ho conosciuto i Focolari nella mia città attraverso il Movimento Diocesano, che porta questa spiritualità in tante Diocesi e parrocchie, tra le quali la mia. Negli incontri molte volte ci proponevamo di amare come insegna il Vangelo, pronti anche a dare la vita gli uni per gli altri. Adesso non potevo tirarmi indietro. Se abbiamo la possibilità di salvare una vita, non possiamo non farlo”. Miso lascia quindi l’Italia e interrompe l’Università senza sapere quando sarebbe potuta tornare. Arrivata in Giordania, l’esperienza è dura. “Ero lì, sola, circondata da una famiglia alla quale mi sembrava di non appartenere. Se avessi subìto l’intervento, tutte le persone che avrei voluto vicine non sarebbero state con me”. Ma va avanti. Dagli esami risulta però che Miso non è compatibile. Poco tempo dopo si trova un donatore: è il fratello del padre, l’unico che dopo Miso ha accettato di fare i controlli. “Mi ci è voluto un po’ per metabolizzare questa esperienza. Anche grazie a tante persone del Movimento che mi sono state vicine, sono riuscita a sviluppare la consapevolezza del bene che voglio a mio padre, anche se mi è difficile ammetterlo. Odiare qualcuno è molto più facile, ma molto più deleterio. Il vero problema non era la situazione in sé, ma come io l’ho affrontata. Ho imparato che si può essere felici sempre, che dipende da noi. Nel Vangelo si legge: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Ora mi rendo conto dell’importanza di queste parole. Se la mia vita fosse stata diversa, magari sarebbe stata solo più semplice, ma io non sarei quella che sono oggi”.

Anna Lisa Innocenti

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