Movimento dei Focolari

Doni gerarchici e doni carismatici in comunione per l’edificazione e la missione della Chiesa

Giu 27, 2001

di Piero Coda

1. Nella Novo millennio ineunte Giovanni Paolo II dà parola, con gioia e gratitudine, alla sorpresa venuta dal Giubileo (cf. n. 12): la bellezza di un “volto pluriforme della Chiesa”, “un inizio, un’icona appena abbozzata del futuro che lo Spirito di Dio ci prepara” (n. 40). Aspetto rilevante e peculiare di quest’icona è stata senz’altro l’epifania della comunione tra i “doni gerarchici” e i “doni carismatici”, con cui lo Spirito ringiovanisce la Chiesa e la guida nella missione. Mio compito è dire qualcosa su questa comunione, sul suo significato teologico, sulla sua attualità storica, sulla sua portata pratica: questi, i tre momenti in cui articolo la presente conversazione, soffermandomi soprattutto sul primo. Il significato teologico 2. Che nella vita della Chiesa, sin dall’origine, i carismi abbiano giocato un ruolo singolare e insostituibile, è un dato di fatto più che una deduzione teologica. Il nuovo è che col Concilio Vaticano II la Chiesa, “sotto la guida dello Spirito, ha riscoperto come costitutiva di sé la dimensione carismatica”. Giungendo a dire, con Giovanni Paolo II, che la dimensione sacramentale-gerarchica e quella carismatica “sono co-essenziali alla costituzione divina della Chiesa fondata da Gesù”. Si tratta di un evento di autocoscienza ecclesiale, di un contributo fondamentale alla formulazione concreta della risposta che il Concilio ha inteso dare alla domanda: Chiesa, che cosa dici di te stessa ? Ma come va inteso, teologicamente, il significato della co-essenzialità e complementarietà di doni gerarchici e doni carismatici ? Si noti, per iniziare, che la dizione scelta – doni gerarchici e doni carismatici – riprende il testo di Lumen gentium 4, che attribuisce all’azione dell’unico Spirito di Cristo tanto gli uni quanto gli altri. Con ciò si vuole escludere in partenza ogni riduttiva e fuorviante contrapposizione tra istituzione e carisma. Non solo i carismi ma anche il ministero ordinato, infatti, sono doni dello Spirito, con natura e finalità diverse, è vero, ma sgorganti da un unico principio e indirizzati a un unico fine: rendere attuale la presenza di Cristo nella storia, facendo crescere l’umanità sino alla sua piena maturità, nell’attesa fervente della sua parusia alla fine dei tempi. Come, dunque, in questa prospettiva, doni gerarchici e doni carismatici sono entrambi costitutivi della Chiesa? E quale il loro rapporto? L’ecclesiologia trinitaria del Vaticano II, da un lato, e la fioritura dei nuovi movimenti e comunità ecclesiali (o di esperienze ad essi assimilabili), dall’altro, hanno offerto alla teologia, negli ultimi anni, un quadro nuovo per impostare con pertinenza, in fedeltà alla Parola della rivelazione e nel solco della tradizione, la questione. Mi limito a richiamare tre contributi di peso, che aprono la strada a ulteriori, promettenti approfondimenti. Il primo è quello offerto dal Card. J. Ratzinger al Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali del ’98. In esso, attraverso un’analisi storico-teologica attenta, soprattutto, alla missione della Chiesa nel suo effettivo realizzarsi, Ratzinger individua nell’apostolicità la collocazione teologica dei doni carismatici e dei movimenti di rinnovamento ecclesiale cui essi danno origine lungo il corso della storia. La tesi centrale è che la traditio dell’evento Cristo, realizzata nella sua forma originaria dagli apostoli, si rinnova e si continua non solo attraverso la struttura gerarchica e sacramentale della Chiesa – che assicura: 1) il legame con la sua origine e norma cristologica, 2) la guida autorevole della comunità locale, 3) l’interpretazione autentica della rivelazione -, ma anche attraverso l’imprevedibile irruzione dello Spirito che suscita sempre nuove forme di adesione, esperienza ed espansione del vangelo, caratterizzate dalla radicalità e dall’universalità. Questa interpretazione – sottolinea Ratzinger – implica un ampliamento e un approfondimento del concetto di apostolicità, e una comprensione specifica del ministero petrino non solo come centro e principio visibile della comunione tra le Chiese locali, ma anche come garante del raggio universale di azione dei grandi carismi. Un secondo e complementare contributo di carattere sistematico, attento alla forma trinitaria della Chiesa e alla sua vocazione alla santità, è quello offerto da H. Urs von Balthasar, e, sulla sua scia, sviluppato da altri Autori. Semplificando al massimo, secondo von Balthasar si può dire che attraverso i doni gerarchici lo Spirito Santo garantisce oggettivamente la presenza di Gesù che si dona, attraverso la Parola e i Sacramenti, alla Chiesa generandola e nutrendola come sua sposa (cf. Ef 5,25ss). Si pensi, per un esempio che rappresenta al contempo il culmine di tale donarsi di Gesù alla Chiesa in tutta la sua realtà oggettiva, all’Eucaristia. Attraverso i doni carismatici, d’altro canto, lo stesso Spirito dischiude e plasma la soggettività dei credenti – e cioè le loro menti e i loro cuori, la loro intera esistenza – perché si facciano capaci di accogliere, penetrare e portare a piena efficacia di vita e di santità il dono oggettivo di Cristo che ricevono dalla Parola e dai Sacramenti. Essi vengono donati, normalmente, a una singola persona, ma in modo tale da “essere condivisi da altri e così vengono conservati nel tempo come una preziosa e viva eredità, che genera una particolare affinità spirituale tra le persone”, a vantaggio della Chiesa intera (ChL 24). Proprio per questo il carisma oggettivo e quello soggettivo – così li definisce von Balthasar – sono co-essenziali nell’identità e nella missione della Chiesa: in quanto esprimono e realizzano il rapporto sponsale che sussiste tra Cristo e la sua Chiesa. Cristo continua a donarsi nello Spirito alla Chiesa sua Sposa attraverso la Parola e i Sacramenti custoditi e amministrati dai pastori; e la Chiesa Sposa, plasmata dai doni carismatici che riceve dallo stesso Spirito, accoglie, genera e fa crescere in sé il Cristo che le è donato dalla Parola e dai Sacramenti, vivendo il comandamento nuovo dell’amore, vincolo della perfezione (cf. Col 3,14; Rm 13,10). Nel primo caso, il dono è garantito oggettivamente dalla fedeltà di Cristo alla Chiesa (per cui, ad esempio, Gesù Eucaristia si fa presente indipendentemente dalla santità soggettiva del ministro); nel secondo, lo Spirito Santo è ricevuto e accolto solo quando chi è chiamato liberamente e gratuitamente a ricevere il carisma soggettivo, a viverlo e a trasmetterlo, si dispone a lasciarsi configurare esistenzialmente a Cristo crocifisso, unico mediatore dell’effusione dello Spirito Santo alla Chiesa. Il carisma oggettivo e quello soggettivo, perciò, sono costitutivamente indirizzati l’uno verso l’altro. I membri della gerarchia, configurati sacramentalmente a Cristo, sono chiamati a essere nel ministero segni e strumenti di Lui – agiscono in persona Christi Capitis Ecclesiae (cf PO 2; LG 10) -, perché Egli possa donare Sé alla Chiesa sua sposa. In quanto pastori, hanno anche la grazia e il dovere di accogliere con gratitudine e di discernere la genuinità dei doni carismatici, nonché di regolarne l’ordinato uso a seconda del loro specifico ambito di competenza: quello della Chiesa universale per il Papa, e quello della Chiesa particolare per i Vescovi uniti in comunione collegiale con Lui (cf. LG 12). Inoltre, in quanto membri della Chiesa sposa, i ministri ordinati sono chiamati a vivere con quella soggettività aperta e accogliente che riceve in sé il dono di Cristo, e possono quindi essere aiutati dai doni carismatici a vivere il loro essere cristiani, e anche ad esercitare il loro ministero, secondo il cuore e la mente di Cristo. Come ha detto Giovanni Paolo II, “i carismi dello Spirito sempre creano delle affinità, destinate a essere per ciascuno il sostegno per il suo compito oggettivo nella Chiesa”. Da parte loro, “i veri carismi – sono sempre parole del Papa – non possono che tendere all’incontro con Cristo nei Sacramenti”, e a vivere una “fiduciosa obbedienza ai Vescovi, successori degli Apostoli, in comunione con il Successore di Pietro”, secondo la parola di Gesù: “chi ascolta voi ascolta me” (Lc 10,16). Non bisogna infine dimenticare quella tipicità dei doni carismatici che K. Rahner ha brillantemente identificato come l’elemento “dinamico” della Chiesa: “Il fattore carismatico – egli scrive, illustrando la dialettica positiva di crescita e di apertura alla novità dello Spirito che così s’instaura nella vita ecclesiale – è essenzialmente nuovo e sempre sorprendente. Naturalmente si trova anche in una misteriosa continuità interiore con quanto nella Chiesa precede, si inserisce nel suo Spirito e nel quadro dell’elemento istituzionale. È tuttavia nuovo e inderivabile, e al primo sguardo non si vede subito che tutto rimane nell’insieme della Chiesa. Spesso, infatti, è attraverso il nuovo che ci si accorge come il quadro della Chiesa fin dall’inizio sia più ampio di quanto non si fosse supposto fino a quel determinato momento”. Von Balthasar, dal canto suo, sottolinea che un autentico carisma è come un lampo dal cielo, destinato a illuminare un punto unico e originale della volontà di Dio per la Chiesa in un dato tempo, manifestando un nuovo tipo di conformità a Cristo ispirato dallo Spirito Santo, e pertanto una nuova illustrazione della Rivelazione. Dinamicità e novità sono dunque caratteristiche peculiari dei doni carismatici “sia come espressione dell’assoluta libertà dello Spirito che li elargisce, sia come risposta alle esigenze molteplici della storia della Chiesa” (così la Christifideles laici, 24), contribuendo in modo determinante – come insegna la Dei Verbum – al tendere incessante della Chiesa verso la pienezza della verità divina, “finché in essa vengano a compimento le parole di Dio” (n. 8). L’attualità storica della riscoperta dei doni carismatici 3. Quest’ultima annotazione circa la dinamicità, la novità e la tensione escatologica che i doni carismatici imprimono alla vita della Chiesa introduce nel secondo momento della nostra riflessione: l’attualità della riscoperta dei doni carismatici nell’ecclesiologia e nella vita della Chiesa, in quest’alba del terzo millennio. Alla luce dei precedenti pensieri e soprattutto della stagione ecclesiale che stiamo vivendo, viene spontaneo domandarsi: perché proprio oggi questa riscoperta? Perché oggi proprio questi carismi? In altre parole: che cosa lo Spirito vuol dire alla Chiesa (cf. Ap 2,7), non solo attraverso i singoli carismi, ma anche grazie a questa nuova e imprevedibile stagione carismatica con le peculiari caratteristiche che, pur nella pluriformità dei doni, sembrano contraddistinguerla ? Evidentemente, non è facile rispondere a queste domande, e potrebbe addirittura sembrare pretenzioso, o per lo meno ozioso, il volersele porre. Penso invece che non solo sia possibile, ma anche importante tentare almeno un inizio di risposta. Mi sembra si possa dire che c’è qualcosa di provvidenziale nel fatto che proprio oggi la Chiesa riscopra la sua costitutiva dimensione carismatica e che proprio questi carismi lo Spirito Santo oggi le abbia dispensato. Forse, tutto questo accade perché la Chiesa possa diventare più pienamente, in questo decisivo trapasso epocale della storia umana, ciò che è per grazia e per vocazione: “sacramento in Cristo, e cioè segno e strumento, dell’intima unione con Dio e dell’unità del genere umano” (LG 1). In una parola: segno testimoniale credibile e strumento efficace e concreto dell’amore di Dio e della comunione universale. Se ciò che lo Spirito ha voluto dire alla Chiesa, attraverso il Concilio Vaticano II, è l’idea-forza della comunione, allora si comprende perché – come ha scritto Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte – sia indispensabile una spiritualità della comunione che faccia sì che la Chiesa diventi esistenzialmente ciò che già è sacramentalmente. In forme diverse eppure convergenti, mi pare si possa dire che le nuove realtà ecclesiali sono sorte per attuare in forma vitale l’ecclesiologia di comunione proposta dal magistero del Vaticano II. Ognuna di queste realtà guardi dentro di sé, alla sua scaturigine e alle forme storico-pratiche in cui si è realizzata, e riconoscerà questa ispirazione. I nuovi movimenti ecclesiali e le esperienze affini costituiscono una preparazione e una recezione carismatica e dinamica, in qualche caso anche eccedente e profetica, del progetto di ecclesiologia proposto nelle sue grandi linee dal Concilio, ma in realtà ancora in via di definizione teologica e pastorale. Una simile interpretazione – è opportuno sottolinearlo – rompe decisamente con il pregiudizio, purtroppo ancora diffuso, secondo cui le nuove realtà ecclesiali sono espressioni di un “conservatorismo” o “neo-classicismo” cattolico in controtendenza rispetto alla spinta innovatrice e riformatrice del Vaticano II. Non nego che qualche intemperanza, ingenuità e immaturità abbiano potuto offrire il destro a questo pregiudizio. Ma complessivamente, esaminando da vicino e senza preconcetti le ispirazioni, i frutti e le intenzionalità dei singoli carismi si può arguire che ci troviamo di fronte a provvidenziali e robuste premesse spirituali per un balzo in avanti, nell’attuazione della figura e della missione della Chiesa, conforme alla linea di marcia disegnata dal Vaticano II. Anche se si tratta soltanto di abbozzo e promessa, affidati alla nostra fedele e creativa responsabilità. Mi limito a richiamare tre tratti (certamente altri se ne potrebbero menzionare) di quest’icona appena abbozzata del futuro della Chiesa che lo Spirito sembra preparare. Il primo concerne la forma della comunione come realizzativa e manifestativa dell’essere Chiesa. Il Card. Ratzinger ha sottolineato che la tripartizione, nel popolo di Dio, tra sacerdoti, religiosi e laici è fondamentale: e come tale il Concilio la ripropone.    Ma – e questo è decisivo! – in un quadro ecclesiologico nuovo: quello, appunto, della fondamentale eguale dignità cristiana e della comunione e reciproca comunicazione. Ora, mi domando: abbiamo sperimentato e riflettuto a sufficienza su che cosa può significare spostare il punto di vista dall’identità dei singoli stati di vita e vocazioni al punto di vista della relazione tra essi? Quando Sant’Agostino scoprì, nel De Trinitate, che la grammatica della relazione è almeno altrettanto essenziale quanto la grammatica della sostanza per dire il Dio di Gesù Cristo, la teologia e la filosofia hanno conosciuto una decisiva svolta. Non sarà che qualcosa di analogo, a livello ecclesiologico, può e deve venire dall’esperienza della comunione ? Non è un caso che le nuove realtà ecclesiali abbiano risposto ante litteram a quella che Giovanni Paolo II ha definito “la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo”: “fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione” (n. 43). In questa prospettiva, il Card. Ratzinger ha sottolineato che il vescovo (e io aggiungerei anche, per la sua parte, il presbitero) “pur rimanendo rappresentante del sacramento e quindi responsabile della presenza della fede, sarà meno monarca, più fratello in una scuola dove vi è un solo Maestro e un solo Padre. Penso che l’espressione ‘episcopato monarchico’ per molto tempo sia stata intesa in un modo scorretto”. Un secondo, decisivo tratto della Chiesa del futuro concerne il suo volto laicale. Il che non significa mettere in ombra la sua struttura sacramentale e gerarchica, anzi: significa piuttosto metterne in rilievo l’autentico significato e servizio. Quello di offrire i mezzi di grazia necessari perché Cristo, principio e forma dell’umanità nuova, faccia dei cristiani il sale e il lievito del mondo. E’ in questa essenziale finalità che si gioca il rapporto tra doni gerarchici e doni carismatici a favore del popolo di Dio, per il bene e la salvezza di tutti gli uomini. L’immagine di Chiesa conosciuta dal secondo millennio – in una forma che nella sua sostanza è certo stata provvidenziale per quei tempi – è stata caratterizzata, soprattutto in Occidente, come hanno mostrato gli studi di Y. Congar e H. De Lubac, dalla dimensione gerarchica, istituzionale, normativa e razionale. L’ecclesiologia del Vaticano II e la recezione carismatica dei movimenti ecclesiali, senza negare la precedente, richiama alla dimensione comunionale, misterica, pneumatica e agapica. Questo fatto è decisivo non solo per la vita ad intra della comunità ecclesiale – chiamata a convertirsi all’esperienza trinitaria dei rapporti tra i suoi membri -, ma anche per il suo proporsi ad extra nella società e nella cultura. Si tratta di realizzare una specie di rivoluzione copernicana, in cui un laicato impegnato seriamente nel cammino della vocazione universale alla santità, grazie alla matura comunione con i pastori della Chiesa nell’esperienza adulta e gioiosa della Parola e dei divini Misteri, possa testimoniare Cristo, salvezza e pienezza dell’umano, nella molteplicità complessa degli aeropaghi del nostro tempo. E ciò esige – ecco un terzo tratto – che emerga nella Chiesa il principio della sua identità mariana. Non può non colpire e far riflettere il fatto che il profilarsi della Chiesa comunione e del compito della nuova evangelizzazione, e insieme l’originale stagione carismatica che ha incorniciato il Vaticano II, sia stata preparata e seguita dal costante rendersi presente di Maria: attraverso la proclamazione dei dogmi dell’Immacolata e dell’Assunta, le molteplici sue apparizioni, i grandi carismi a forte impronta mariana. Tutto ciò, penso, racchiude una precisa indicazione ecclesiologica, che l’esperienza dei movimenti ecclesiali può aiutare a decifrare e a incarnare. Guardare a Maria, anzi far rivivere Maria in noi – direbbe il Montfort – affinché in noi e fra noi viva il Cristo Risorto, non significa forse primato dell’essere sul fare, dell’affidamento al disegno divino sul progetto umano, della vita sull’idea, del servizio sulle tante forme palesi o occulte di potere, della Parola di Dio e della contemplazione sull’azione che solo da esse può promanare, della misericordia sul giudizio, dell’attesa paziente sulla fretta dell’imposizione, dello sguardo universale sulla cura asfittica del particolare, dell’amore reciproco come premessa di ogni altra premessa per essere ed essere riconosciuti discepoli di Cristo su ogni altra cosa ? Non è forse la Chiesa del fiat e del magnificat, dello stabat ai piedi del Crocifisso e del fuoco di Pentecoste quella che il mondo, e noi stessi, attendiamo ? Conseguenze pratiche nella vita e nella missione della Chiesa 4. Mi avvio alla conclusione, accennando soltanto al terzo momento preannunciato: quali conseguenze pratiche dalla riscoperta della co-essenzialità di doni gerarchici e carismatici nella vita e nella missione della Chiesa ? La risposta la dobbiamo lasciare allo Spirito Santo, ma al tempo stesso la dobbiamo accogliere attraverso un rigoroso e profetico discernimento comunitario, che veda attori tutti i membri della Chiesa in ascolto dei segni dei tempi. La Pentecoste ’98, l’evento giubilare, le indicazioni sapienti, lungimiranti e incisive di Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte indicano la strada. Mi contento di esplicitare quelle che mi sembrano tre direzioni in cui va esercitata oggi, da parte della Chiesa, una disarmata apertura nei confronti dell’azione dello Spirito Santo: perché la grazia grande che ci è stata posta tra le mani – con ciò intendo non solo i carismi dei singoli movimenti, ma anche l’icona di Chiesa proposta dal Vaticano II e stagliata, pur coi suoi limiti, dal Giubileo -, possa attuarsi secondo i modi, i tempi e i fini pensati dall’amore di Dio. La prima apertura è quella cui sono chiamati i pastori nei confronti dei nuovi carismi. Apertura reale e sincera a ciò che lo Spirito vuol dire alla Chiesa, al suo modo profondo e insieme concreto di essere e di agire oggi: per evitare di strumentalizzare le nuove energie, secondo schemi di comprensione ecclesiale e di azione pastorale preconfezionati, e perciò irrimediabilmente non all’altezza dell’oggi di Dio. La seconda apertura è quella cui sono chiamate le nuove realtà ecclesiali le une verso le altre e, prima di tutto, verso la Chiesa di cui sono figlie. Se il novum dello Spirito è oggi la comunione come principio e fine della nuova evangelizzazione, sarebbe peccato imperdonabile se esse per prime non la vivessero in quella forma cui ciascuna è originalmente chiamata. Ritrovare sé fuori di sé: questa è la legge della comunione e della missione. La terza apertura è quella all’azione dello Spirito che spinge – se ve ne fosse bisogno, e ce n’è bisogno – a distogliere tutti lo sguardo da noi stessi, dalle nostre belle esperienze e dai nostri acuti problemi, così come dai nostri ideali e dalle nostre frustrazioni di Chiesa, per “prendere il largo” (Lc 5,4), per “uscire anche noi dall’accampamento e andare verso di Lui”, che “per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città” (cf. Eb 13,12-13). Solo se attraverseremo, come Chiesa e come singoli, la porta della città in cui abitiamo comodi e protetti, scopriremo con stupore la realtà della promessa: “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa. (…) Il popolo che Io stesso ho plasmato per me celebrerà le mie lodi” (Is 43,19.21). PIERO CODA

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Iscriviti alla Newsletter

Pensiero del giorno

Articoli Correlati

Tempo del Creato

Tempo del Creato

Anche quest’anno giunge il Tempo del Creato, la celebrazione cristiana annuale per pregare e rispondere insieme al grido del Creato.