Movimento dei Focolari

Luglio 2010

In questa brevissima parabola, Gesù colpisce fortemente l’immaginazione dei suoi ascoltatori. Tutti sapevano il valore delle perle che, assieme all’oro, erano allora quanto di più prezioso si conoscesse.
In più, le Scritture parlavano della sapienza e cioè della conoscenza di Dio come di qualcosa da non paragonare "neppure a una gemma inestimabile" .
Ma viene in rilievo nella parabola l’avvenimento eccezionale, sorprendente e inatteso che rappresenta per quel commerciante l’aver adocchiato, forse in un bazar, una perla che solo ai suoi occhi esperti aveva un valore enorme e dalla quale perciò poteva ricavare un ottimo profitto. Ecco perché, avendo fatto i suoi calcoli, decide che valeva la pena di vendere tutto per comprare la perla. E chi non avrebbe fatto lo stesso al suo posto?
Ecco dunque il significato profondo della parabola: l’incontro con Gesù, e cioè con il Regno di Dio fra noi – ecco la perla! -, è quell’occasione unica che bisogna prendere al volo, impegnando fino in fondo tutte le proprie energie e ciò che si possiede.

"Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra".

Non è la prima volta che i discepoli si sentono messi di fronte ad un’esigenza radicale e cioè a quel tutto che bisogna lasciare per seguire Gesù: i beni più preziosi quali gli affetti familiari, la sicurezza economica, le garanzie per il futuro.
Ma la sua non è una richiesta immotivata e assurda.
Per un "tutto" che si perde c’è un "tutto" che si trova, inestimabilmente più prezioso. Ogni volta che Gesù domanda qualcosa, promette anche di dare molto, molto di più, in misura sovrabbondante.
Così con questa parabola ci assicura che avremo tra le mani un tesoro che ci farà ricchi per sempre.
E, se può sembrare un errore lasciare il certo per l’incerto, un bene sicuro per un bene solo promesso, pensiamo a quel mercante: egli sa che quella perla è molto preziosa ed attende fiducioso ciò che gli procurerà trafficandola.
Così chi vuol seguire Gesù sa, vede, con gli occhi della fede, quale immenso guadagno sarà condividere con lui l'eredità del Regno per aver tutto lasciato almeno spiritualmente.
A tutti gli uomini Dio offre nella vita un’occasione del genere perché la sappiano afferrare.

"Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra".

E’ un invito concreto a mettere da parte tutti quegli idoli che nel cuore possono prendere il posto di Dio: carriera, matrimonio, studi, una bella casa, la professione, lo sport, il divertimento.
E’ un invito a mettere Dio al primo posto, al vertice di ogni nostro pensiero, di ogni nostro affetto perché tutto nella vita deve convergere a lui e tutto da lui deve discendere.
Facendo così, cercando il Regno, secondo la promessa evangelica, il resto ci sarà dato in sovrappiù . Accantonando tutto per il Regno di Dio riceviamo il centuplo in case, fratelli, sorelle, padri e madri , perché il Vangelo ha una chiara dimensione umana: Gesù è uomo-Dio e insieme al cibo spirituale ci assicura il pane, la casa, il vestito, la famiglia.
Forse dovremmo imparare dai "piccoli" a fidarci di più della Provvidenza del Padre, che non fa mancare nulla a chi dà, per amore, tutto quel poco che ha.
In Congo un gruppo di ragazzi fabbricano da alcuni mesi cartoline artistiche con la scorza di banana, vendute poi in Germania. In un primo momento trattengono tutto il ricavato (qualcuno mantiene con ciò l'intera famiglia). Ora hanno deciso di mettere il 50% in comune e 35 giovani disoccupati hanno ricevuto un aiuto.
E Dio non si lascia vincere in generosità: due di questi ragazzi hanno dato una tale testimonianza nel negozio ove sono impiegati, che diversi commercianti, in cerca di personale, si sono rivolti a quel negozio. Ben in undici hanno così trovato un lavoro fisso.

Chiara Lubich

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Giugno 2010

ascolta l'audio della Parola di vita

Leggendo questa Parola di Gesù vengono in rilievo due tipi di vita: la vita terrena che si costruisce in questo mondo, e la vita soprannaturale data da Dio, attraverso Gesù, vita che non finisce con la morte e che nessuno può togliere.
Di fronte all'esistenza, allora, si possono avere due atteggiamenti: o attaccarsi alla vita terrena, considerandola come l'unico bene, e saremo  portati a pensare a noi stessi, alle nostre cose, alle creature; ci chiuderemo nel nostro guscio, affermando solo il proprio io, e troveremo come conclusione alla fine, inevitabilmente, solo la morte. Oppure, diversamente, credendo che abbiamo ricevuto da Dio un'esistenza ben più profonda e autentica, avremo il coraggio di vivere in modo da meritare questo dono fino al punto di saper sacrificare la nostra vita terrena per l'altra.

"Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà"

Quando Gesù ha detto queste parole pensava al martirio. Noi, come ogni cristiano, dobbiamo essere pronti, per seguire il Maestro e rimanere fedeli al Vangelo, a perdere la nostra vita, morendo – se necessario – anche di morte violenta, e con la grazia di Dio ci sarà data con ciò la vera vita. Gesù per primo ha "perso la sua vita" e l'ha ottenuta glorificata. Egli ci ha preavvertito di non temere "quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima" .
Oggi ci dice:

"Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà"

Se leggi attentamente il Vangelo, vedrai che Gesù torna su questo concetto per ben sei volte. Ciò sta a dimostrare che importanza esso abbia e in quale considerazione Gesù lo tenga.
Ma l'esortazione a perdere la propria vita non è per Gesù soltanto un invito a sostenere anche il martirio. E' una legge fondamentale della vita cristiana.
Occorre esser pronti a rinunciare a fare di se stessi l'ideale della vita, a rinunciare alla nostra indipendenza egoistica. Se vogliamo essere veri cristiani dobbiamo fare di Cristo il centro della nostra esistenza. E cosa Cristo vuole da noi? L'amore per gli altri. Se faremo nostro questo suo programma, avremo certamente perso noi stessi e trovato la vita.
E questo non vivere per sé, non è certamente, come qualcuno può pensare, un atteggiamento rinunciatario e passivo. L'impegno del cristiano è sempre assai grande e il suo senso di responsabilità è totale.

"Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà"

Fin da questa terra si può fare l'esperienza che nel dono di se stessi, nell'amore vissuto, cresce in noi la vita. Quando avremo speso la nostra giornata al servizio degli altri, quando avremo saputo trasformare il lavoro quotidiano, magari monotono e duro, in un gesto d'amore, proveremo la gioia di sentirci più realizzati.

"Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà"

Seguendo i comandi di Gesù, che sono tutti imperniati sull'amore, dopo questa breve esistenza troveremo anche quella eterna.
Ricordiamo quale sarà il giudizio di Gesù nell'ultimo giorno. Egli dirà a quelli che stanno alla sua destra: "Venite, benedetti… perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito…" .
Per farci partecipi dell'esistenza che non passa, guarderà unicamente se avremo amato il prossimo e riterrà fatto a sé quanto abbiamo fatto ad esso.
Come vivremo allora questa Parola? Come perderemo sin da oggi la nostra vita per trovarla?
Preparandoci al grande e decisivo esame per il quale siamo nati.
Guardiamoci attorno e riempiamo la giornata di atti di amore. Cristo si presenta a noi nei nostri figli, nella moglie, nel marito, nei compagni di lavoro, di partito, di svago, ecc. Facciamo del bene a tutti. E non dimentichiamo quelli di cui veniamo a conoscenza ogni giorno sui giornali o attraverso amici o per mezzo della televisione… Facciamo per tutti qualcosa, secondo le nostre possibilità. E quando quelle ci sembrassero esaurite, potremo ancora pregare per loro. E' amore che vale.

Chiara Lubich

Parola di vita di maggio 2010

Nell'ultimo discorso di Gesù, l'amore è al centro: l'amore del Padre per il Figlio, l'amore per Gesù che è osservanza dei suoi comandamenti.
Coloro che ascoltavano Gesù non facevano fatica a riconoscere nelle sue parole un'eco dei Libri sapienziali: "l'amore è osservanza delle sue leggi"  e "facilmente è contemplata – la Sapienza – da chi l'ama" . E soprattutto quel manifestarsi a chi lo ama trova il suo parallelo veterotestamentario in Sap 1,2, dove si dice che il Signore si manifesterà a coloro che credono in lui.
Ora il senso di questa Parola, che proponiamo, è: chi ama il Figlio è amato dal Padre, ed è riamato dal Figlio che si manifesta a lui.

"Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui" (Gv 14,21)

Tale manifestazione di Gesù chiede però di amare.
Non si concepisce un cristiano che non abbia questo dinamismo, questa carica d'amore nel cuore. Un orologio non funziona, non dà l'ora – e si può dire che non è neppure un orologio – se non è carico. Così un cristiano, che non è sempre nella tensione di amare, non merita il nome di cristiano.

E questo perché tutti i comandamenti di Gesù si riassumono in uno solo: in quello dell'amore per Dio e il prossimo, nel quale vedere e amare Gesù.
L'amore non è mero sentimentalismo ma si traduce in vita concreta, nel servizio ai fratelli, specie quelli che ci stanno accanto, cominciando dalle piccole cose, dai servizi più umili.
Dice Charles de Foucauld: "Quando si ama qualcuno, si è molto realmente in lui, si è in lui con l'amore, si vive in lui con l'amore, non si vive più in sé, si è 'distaccati' da sé, 'fuori' di sé" .
Ed è per questo amore che si fa strada in noi la sua luce, la luce di Gesù, secondo la sua promessa: "A chi mi ama … mi manifesterò a lui" . L'amore è fonte di luce: amando si comprende di più Dio che è amore.
E questo fa sì che si ami ancora di più e si approfondisca il rapporto con i prossimi.

Questa luce, questa conoscenza amorosa di Dio è dunque il suggello, la riprova del vero amore. E la si può sperimentare in vari modi, perché in ciascuno di noi la luce assume un colore, una sua tonalità. Ma ha delle caratteristiche comuni: ci illumina sulla volontà di Dio, ci dà pace, serenità, e una comprensione sempre nuova della Parola di Dio. E' una luce calda che ci stimola a camminare nella via della vita in modo sempre più sicuro e spedito. Quando le ombre dell'esistenza ci rendono incerto il cammino, quando addirittura fossimo bloccati dall'oscurità, questa Parola del Vangelo ci ricorderà che la luce s'accende con l'amore e che basterà un gesto concreto d'amore anche piccolo (una preghiera, un sorriso, una parola), a darci quel barlume che ci permette di andare avanti.

Quando si va in bicicletta di notte, se ci si ferma si piomba nel buio, ma se ci si rimette a pedalare la dinamo darà la corrente necessaria per vedere la strada.
Così è nella vita: basta rimettere in moto l'amore, quello vero, quello che dà senza aspettarsi nulla, per riaccendere in noi la fede e la speranza.

Chiara Lubich 

Parola di vita di aprile 2010

Parola di vita di aprile 2010

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Gesù pronunciò queste parole in occasione della morte di Lazzaro di Betania, che poi Egli al quarto giorno risuscitò.
Lazzaro aveva due sorelle: Marta e Maria.
Marta, appena seppe che arrivava Gesù, gli corse incontro e gli disse: "Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!". Gesù le rispose: "Tuo fratello risusciterà". Marta replicò: "So che risusciterà nell'ultimo giorno". E Gesù dichiara: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno".

"Io sono la risurrezione e la vita".

Gesù vuol fare intendere chi egli è per l'uomo. Gesù possiede il bene più prezioso che si possa desiderare: la Vita, quella Vita che non muore.
Se hai letto il Vangelo di Giovanni, avrai trovato che Gesù ha pure detto: “Come il Padre ha la Vita in se stesso, così ha concesso al Figlio di avere la Vita in se stesso” .
E poiché Gesù ha la Vita, la può comunicare.

"Io sono la risurrezione e la vita".

Anche Marta crede alla risurrezione finale: "So che risusciterà nell'ultimo giorno". 
Ma Gesù, con la sua affermazione meravigliosa: "Io sono la risurrezione e la vita", le fa capire che non deve attendere il futuro per sperare nella risurrezione dei morti. Già adesso, nel presente, egli è per tutti i credenti, quella Vita divina, ineffabile, eterna, che non morirà mai.
Se Gesù è in loro, se egli è in te, non morirai. Questa Vita nel credente è della stessa natura di Gesù risorto e quindi ben diversa dalla condizione umana in cui si trova.
E questa straordinaria Vita, che già esiste anche in te, si manifesterà pienamente nell'ultimo giorno, quando parteciperai, con tutto il tuo essere, alla risurrezione futura.

 
"Io sono la risurrezione e la vita".

Certamente Gesù con queste parole non nega che ci sia la morte fisica. Ma essa non implicherà la perdita della Vita vera. La morte resterà per te, come per tutti, un'esperienza unica, fortissima e forse temuta. Ma non significherà più il non senso di un'esistenza, non sarà più l'assurdo, il fallimento della vita, la tua fine. La morte, per te, non sarà più realmente una morte.

"Io sono la risurrezione e la vita".

E quando è nata in te questa Vita che non muore?
Nel battesimo. Lì, pur nella tua condizione di persona che deve morire, hai avuto da Cristo la Vita immortale. Nel battesimo, infatti, hai ricevuto lo Spirito Santo che è colui che ha risuscitato Gesù. 
E condizione per ricevere questo sacramento è la tua fede, che hai dichiarato attraverso i tuoi padrini. Gesù, infatti, nell'episodio della risurrezione di Lazzaro, parlando a Marta, ha precisato: "Chi crede in me, anche se muore vivrà" (…) "Credi tu questo?" .
 "Credere", qui, è un fatto molto serio, molto importante: non implica solo accettare le verità annunciate da Gesù, ma aderirvi con tutto l'essere.
Per avere questa vita, devi dunque dire il tuo sì a Cristo. E ciò significa adesione alle sue parole, ai suoi comandi: viverli. Gesù lo ha confermato: "Se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte" . E gli insegnamenti di Gesù sono riassunti nell'amore.
Non puoi, quindi, non essere felice: in te è la Vita!

"Io sono la risurrezione e la vita".

In questo periodo in cui ci si prepara alla celebrazione della Pasqua, aiutiamoci a fare quella sterzata, che occorre sempre rinnovare, verso la morte del nostro io perché Cristo, il Risorto, viva sin d'ora in noi.

Chiara Lubich
 

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Parola di vita di aprile 2010

Marzo 2010

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Quante volte nella vita senti il bisogno che qualcuno ti dia una mano e nello stesso tempo avverti che nessun uomo può risolvere la tua situazione! E’ allora che ti rivolgi inavvertitamente a Qualcuno che sa rendere le cose impossibili possibili. Questo Qualcuno ha un nome: è Gesù.
Ascolta quanto ti dice:

“In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile”

E’ ovvio che l’espressione “spostare le montagne” non vada presa alla lettera. Gesù non ha promesso ai discepoli un potere di fare miracoli spettacolari per stupire la folla. E difatti, se vai a cercare in tutta la storia della Chiesa, non troverai un santo – che io sappia – che abbia spostato le montagne con la fede. “Spostare le montagne” è un’iperbole, cioè un modo di dire volutamente esagerato, per inculcare nella mente dei discepoli il concetto che alla fede nulla è impossibile.
Ogni miracolo infatti che Gesù ha operato, direttamente o attraverso i suoi, è sempre stato fatto in funzione del Regno di Dio, o del Vangelo o della salvezza degli uomini. Spostare una montagna non servirebbe a questo.
Il paragone col “granellino di senapa” sta a indicare che Gesù non ti domanda una fede più o meno grande, ma una fede autentica. E la caratteristica della fede autentica è quella di poggiare unicamente su Dio e non sulle tue capacità.
Se ti assale il dubbio o l’esitazione nella fede significa che la tua fiducia in Dio non è ancora piena: hai una fede debole e poco efficace, che fa ancora leva sulle tue forze e sulla logica umana.
Chi invece si fida interamente di Dio, lascia che lui stesso agisca e… a Dio niente è impossibile.
La fede che Gesù vuole dai discepoli è proprio quell’atteggiamento pieno di fiducia che permette a Dio stesso di manifestare la sua potenza.
E questa fede, che quindi sposta le montagne, non è riservata a qualche persona eccezionale. Essa è possibile e doverosa per tutti i credenti.
   
“In verità vi dico: se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile”.

Si pensa che Gesù abbia detto queste parole ai suoi discepoli quando stava per inviarli in missione.
E’ facile scoraggiarsi e spaventarsi quando si sa di essere un piccolo gregge impreparato, senza talenti particolari, di fronte a folle innumerevoli alle quali bisogna portare la verità del Vangelo.
E’ facile perdersi d’animo di fronte a gente che ha tutt’altri interessi che il Regno di Dio.
Sembra un compito impossibile.
E’ allora che Gesù assicura i suoi che con la fede “sposteranno le montagne” dell’indifferenza, del disinteresse del mondo.
Se avranno fede nulla sarà loro impossibile.
Questa frase può essere inoltre applicata a tutte le altre circostanze della vita purché siano in ordine al progresso del Vangelo e alla salvezza delle persone.
Alle volte, di fronte a difficoltà insormontabili può nascere la tentazione di non rivolgersi nemmeno a Dio. La logica umana suggerisce: basta, tanto non serve.
Ecco allora che Gesù esorta a non scoraggiarsi e a rivolgersi a Dio con fiducia. Egli, in un modo o nell’altro, esaudirà.
Così è successo a Lella.
Erano trascorsi alcuni mesi dal giorno in cui aveva affrontato piena di speranza il nuovo lavoro nel Belgio tra fiamminghi. Ma ora un senso di sgomento e di solitudine le attanagliava l’anima.
Sembrava che tra lei e le altre ragazze con cui lavorava e viveva si fosse eretta una barriera insormontabile.
Si sentiva isolata, straniera tra quella gente che avrebbe voluto soltanto servire con amore.
Tutto dipendeva dal dover parlare una lingua che non era né sua, né di chi l’ascoltava. Le avevano detto che in Belgio tutti parlavano il francese e se l’era imparato, ma, venuta a contatto diretto con quel popolo, s’era accorta che i fiamminghi studiano il francese soltanto a scuola e in genere lo parlano malvolentieri.
Tante volte aveva tentato di spostare quella montagna di emarginazione che la teneva lontana dalle altre, ma invano. Che poteva fare per loro?
Vedeva ancora davanti a sé il volto della sua compagna Godeliève pieno di tristezza. Quella sera si era ritirata nella sua stanza senza toccar cibo.
Lella aveva tentato di seguirla, ma si era arrestata davanti alla porta della sua camera, timida e titubante. Avrebbe voluto bussare… ma quali parole usare per farsi intendere? Era rimasta lì per qualche secondo, poi si era arresa ancora una volta.
La mattina dopo entrò in chiesa e si mise in fondo, fra le ultime sedie, col viso tra le mani per non far scorgere ad alcuno le lacrime. Era quello l’unico posto dove non occorreva parlare un’altra lingua, dove non era neppure necessario spiegarsi, perché c’era Qualcuno che capiva al di là delle parole. Fu la certezza di quella comprensione che la fece ardita, e con l’anima angosciata chiese a Gesù: “Perché non posso dividere con le altre ragazze la loro croce e dire quelle parole che Tu stesso mi hai fatto capire quando Ti ho trovato: che ogni dolore è amore?”.
E stava davanti al tabernacolo quasi ad attendere una risposta da Chi nella vita le aveva illuminato ogni buio.
Abbassò gli occhi sul Vangelo di quel giorno e lesse: “Confidate – abbiate fede – ho vinto il mondo” . Quelle parole scesero come olio nell’anima di Lella, ed ebbe una grande pace.
Rientrando per la colazione si imbatté subito in Annj, la ragazza che badava all’ordine della casa. La salutò e la seguì fino alla dispensa; poi, senza parlare, cominciò ad aiutarla nel preparare la colazione.
La prima a scendere dalle stanze fu Godeliève. Veniva in cucina a cercarsi il caffè, in fretta per non veder nessuno. Ma lì si arrestò: la pace di Lella aveva toccato il suo animo in modo più forte di qualunque parola.
Quella sera, sulla strada del ritorno verso casa, Godeliève raggiunse Lella con la bicicletta e, sforzandosi di parlare in modo a lei comprensibile, le sussurrò: “Non sono necessarie le tue parole; oggi la tua vita mi ha detto: ‘Ama anche tu!’”.
La montagna si era spostata.

Chiara Lubich
 

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febbraio 2010

Gesù si presenta come colui che realizza le promesse divine e le aspettative di un popolo la cui storia è tutta segnata dall’alleanza, mai revocata, con il suo Dio.
L’idea della porta assomiglia e si spiega bene con l’altra immagine usata da Gesù: “Io sono la via, nessuno va al Padre se non attraverso di me” Cf Gv 14,6. Dunque lui è veramente una strada e una porta aperta sul Padre, su Dio stesso.

“Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo”.

Cosa significa concretamente nella nostra vita questa Parola?
Sono tante le implicazioni che si deducono da altri passi del Vangelo che hanno attinenza con il brano di Giovanni, ma fra tutte scegliamo quella della “porta stretta” attraverso la quale sforzarsi di entrare Cf Mt 7,13 per entrare nella vita.
Perché questa scelta? Perché ci sembra quella che forse più ci avvicina alla verità che Gesù dice su se stesso e più ci illumina sul come viverla.
Quando diventa, egli, la porta spalancata, pienamente aperta sulla Trinità? Là dove la porta del Cielo sembra chiudersi per lui, egli diviene la porta del Cielo per tutti noi.
Gesù abbandonato  è la porta attraverso la quale avviene lo scambio perfetto tra Dio e l’umanità: fattosi nulla, unisce i figli al Padre. E’ quel vuoto (il vano della porta) per cui l’uomo viene in contatto con Dio e Dio con l’uomo.
Dunque lui è la porta stretta e la porta spalancata nello stesso tempo, e di questo possiamo farne esperienza.

“Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo”.

Gesù nell’abbandono si è fatto per noi accesso al Padre.
La parte sua è fatta. Ma per usufruire di tanta grazia anche ognuno di noi deve fare la sua piccola parte, che consiste nell’accostarsi a quella porta e nel passare al di là. Come?
Quando ci sorprende la delusione o siamo feriti da un trauma o da una disgrazia imprevista o da una malattia assurda, possiamo sempre ricordare il dolore di Gesù che tutte queste prove, e mille altre ancora, ha impersonato.
Sì, egli è presente in tutto ciò che ha sapore di dolore. Ogni nostro dolore è un suo nome.
Proviamo, dunque, a riconoscere Gesù in tutte le angustie, le strettoie della vita, in tutte le oscurità, le tragedie personali e altrui, le sofferenze dell’umanità che ci circonda. Sono lui, perché egli le ha fatte sue. Basterà dirgli, con fede: “Sei Tu, Signore, l’unico mio bene” Cf Mc 15,34 e Mt 27,46, basterà fare qualcosa di concreto per alleviare le “sue” sofferenze nei poveri e negli infelici, per andare al di là della porta, e trovare al di là una gioia mai provata, una nuova pienezza di vita.

Chiara Lubich

Questo commento, pubblicato per intero, si trova in Città Nuova, 25.3.1999, n.6, p.47

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