Movimento dei Focolari

Parola di Vita Luglio 2015

«Si concludono con queste parole i discorsi di addio che Gesù ha rivolto ai discepoli nella sua ultima cena, prima di essere consegnato nelle mani di coloro che lo avrebbero messo a morte. È stato un dialogo serrato, nel quale ha rivelato la realtà più profonda del suo rapporto con il Padre e della missione che egli gli ha affidato. Gesù sta per lasciare la terra e tornare al Padre, mentre i discepoli rimarranno nel mondo per continuare la sua opera. Anch’essi, come lui, saranno odiati, perseguitati, perfino messi a morte (cf. 15, 18.20; 16, 2). La loro sarà una missione difficile come lo è stata la sua. Egli sa bene le difficoltà e le prove che i suoi amici dovranno affrontare: «Nel mondo avete tribolazioni», ha appena detto (16, 33). Gesù si rivolge agli apostoli riuniti attorno a sé per quell’ultima cena, ma ha davanti tutte le generazioni di discepoli che lo avrebbero seguito lungo i secoli, anche noi. È proprio vero. Pur tra le gioie disseminate sul nostro cammino, non mancano le “tribolazioni”: l’incertezza sul futuro, la precarietà del lavoro, le povertà e le malattie, le sofferenze a seguito delle calamità naturali e delle guerre, la violenza diffusa in casa e tra le nazioni. Vi sono poi le tribolazioni legate all’essere cristiani: la lotta quotidiana per rimanere coerenti al Vangelo, il senso di impotenza davanti a una società che sembra indifferente al messaggio di Dio, la derisione, il disprezzo se non l’aperta persecuzione da chi non comprende o si oppone alla Chiesa. Gesù conosce le tribolazioni avendole vissute in prima persona ma dice: “Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo” Questa affermazione, così decisa e convinta, sembra una contraddizione. Come può Gesù affermare di aver vinto il mondo quando pochi momenti dopo aver pronunciato queste parole sarà fatto prigioniero, flagellato, condannato, ucciso nella maniera più crudele e vergognosa? Più che aver vinto sembra essere stato tradito, rifiutato, ridotto a nulla, e quindi sconfitto, clamorosamente. In cosa consiste la sua vittoria? Certamente nella resurrezione: la morte non può tenerlo in suo possesso. La sua vittoria è talmente potente da rendere partecipi di essa anche noi: si rende presente tra di noi e ci porta con sé nella vita piena, nella nuova creazione. Ma prima ancora la sua vittoria è stata l’atto stesso dell’amore più grande con il quale ha dato la vita per noi. Qui, nella sconfitta, egli trionfa pienamente. Penetrando in ogni angolo della morte, ci ha liberato da tutto quanto ci opprime e ha trasformato ogni nostro negativo, ogni nostro buio e dolore, in un incontro con lui, Dio, Amore, pienezza. Paolo, ogni volta che pensava alla vittoria di Gesù sembrava impazzire di gioia. Se egli, così affermava, ha affrontato ogni avversità, fino a quella suprema della morte e ha vinto, anche noi, con lui e in lui possiamo vincere ogni difficoltà, anzi, grazie al suo amore, siamo «più che vincitori»: «Io sono infatti persuaso che né morte né vita […], né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 37-39; cf. 1 Cor 15, 57). Si comprende allora l’invito di Gesù a non avere più paura di niente: “Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo” Questa parola di Gesù, che terremo viva durante tutto il mese, potrà infonderci fiducia e speranza. Per quanto dure e difficili possano essere le circostanze nelle quali ci troviamo, abbiamo la certezza che esse sono già state fatte proprie e superate da Gesù. Anche se noi non abbiamo la sua forza interiore, abbiamo lui stesso che vive e lotta con noi. «Se tu hai vinto il mondo – potremo dirgli quando ci sentiamo sopraffare dalle difficoltà, dalle prove, dalle tentazioni – saprai vincere anche questa mia ‘tribolazione’. A me, alla mia famiglia, ai miei colleghi di lavoro quanto sta avvenendo sembra un ostacolo insormontabile, abbiamo l’impressione di non farcela, ma con te fra noi troveremo il coraggio e la forza per affrontare questa avversità, fino ad essere “più che vincitori”». Non si tratta di avere una visione trionfalista della vita cristiana, come se tutto fosse facile e già risolto. Gesù è vittorioso proprio nel momento in cui vive il dramma della sofferenza, dell’ingiustizia, dell’abbandono e della morte. La sua è la vittoria di chi affronta il dolore per amore, di chi crede nella vita dopo la morte. Forse anche noi, a volte, come Gesù e come i martiri, dovremo attendere il Cielo per vedere la piena vittoria sul male. Spesso si ha timore a parlare del Paradiso, quasi che il suo pensiero fosse una droga per non affrontare con coraggio le difficoltà, un’anestesia per attutire le sofferenze, un alibi per non lottare contro le ingiustizie. La speranza del Cielo e la fede nella risurrezione sono invece un impulso potente ad affrontare ogni avversità, a sostenere gli altri nelle prove, a credere che la parola finale è quella dell’amore che vince l’odio, della vita che sconfigge la morte. Dunque, ogni volta che ci imbattiamo in qualsiasi difficoltà, personale, di quanti ci sono vicino, o di quelli di cui veniamo a conoscenza nelle diverse parti del mondo, rinnoviamo la fiducia in Gesù, presente in noi e tra noi, che ha vinto il mondo, che ci rende partecipi della sua stessa vittoria, che ci spalanca il Paradiso dove è andato a prepararci un posto. In questo modo troveremo il coraggio per affrontare ogni prova. Tutto potremo superare, in colui che ci dà forza. Fabio Ciardi (altro…)

Parola di Vita Giugno 2015

Quanto affetto nel ripetere questo nome: Marta, Marta. La casa di Betania, alle porte di Gerusalemme, è un luogo dove Gesù usa fermarsi e riposare con i suoi discepoli. Fuori, in città, deve discutere, trova opposizione e rifiuto, qui invece c’è pace e accoglienza. Marta è intraprendente e attiva. Lo dimostrerà anche alla morte del fratello, quando ingaggia con Gesù una conversazione sostenuta, nella quale lo interpella con energia. È una donna forte, che mostra una grande fede. Alla domanda: “Credi che io sono la risurrezione e la vita?”, risponde senza esitare: “Sì, Signore, io credo” (cf. Gv 11, 25-27). Anche adesso è indaffarata a preparare un’accoglienza degna del Maestro e dei suoi discepoli. È la padrona di casa (come dice il nome stesso: Marta significa “padrona”) e quindi si sente responsabile. Probabilmente sta preparando la cena per l’ospite di riguardo. Maria, la sorella, l’ha lasciata sola alle sue occupazioni. Contrariamente alle consuetudini orientali, invece di stare in cucina, se ne sta con gli uomini ad ascoltare Gesù, seduta ai suoi piedi, proprio come la perfetta discepola. Per questo l’intervento un po’ risentito di Marta: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti» (Lc 10,40). Ed ecco la risposta affettuosa e insieme ferma di Gesù:

“Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno.”

Non era contento Gesù dell’intraprendenza e del servizio generoso di Marta? Non gradiva l’accoglienza concreta e non avrebbe gustato volentieri le vivande che gli stava preparando? Poco dopo questo episodio, nelle parabole loderà amministratori, imprenditori e dipendenti che sanno mettere a frutto talenti e trafficare i beni (cf. Lc 12, 42; 19, 12-26). Ne loda perfino la scaltrezza (cf. Lc 16, 1-8). Non poteva quindi non rallegrarsi nel vedere una donna così piena di iniziativa e capace di un’accoglienza fattiva e copiosa. Quello che le rimprovera è l’affanno e la preoccupazione che mette nel lavoro. È agitata, è «presa dai molti servizi» (Lc 10,40), ha perduto la calma. Non è più lei a guidare il lavoro, è piuttosto il lavoro che ha preso il sopravvento e la tiranneggia. Non è più libera, è diventata schiava della sua occupazione. Non capita anche a noi a volte di disperderci nelle mille cose da fare? Siamo attratti e distratti da internet, dalle chat, dagli inutili sms. Anche quando sono gli impegni seri ad occuparci, essi possono farci dimenticare di rimanere attenti agli altri, di ascoltare le persone che ci sono vicine. Il pericolo è soprattutto perdere di vista perché e per chi lavoriamo. Il lavoro e le altre occupazioni diventano fine a se stessi. Oppure siamo presi dall’ansia e dall’agitazione davanti a situazioni e problemi difficili che riguardano la famiglia, l’economia, la carriera, la scuola, il futuro nostro o dei figli, al punto di dimenticare le parole di Gesù: «Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno» (Mt 6, 31-32). Meritiamo anche noi il rimprovero di Gesù:

“Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno.”

Qual è la sola cosa di cui c’è bisogno? Ascoltare e vivere le parole di Gesù. Ad esse – e a lui che parla – non si può anteporre assolutamente nulla. Il vero modo di ospitare il Signore, di fargli casa, è accogliere ciò che egli ci dice. Proprio come ha fatto Maria, che ha dimenticato tutto, si è messa ai suoi piedi e non ha perduto una sua parola. Non saremo guidati dal desiderio di metterci in mostra o di primeggiare, ma di piacere a lui, di essere al servizio del suo regno. Come Marta, anche noi siamo chiamati a fare “molte cose” per il bene degli altri. Gesù ci ha insegnato che il Padre è contento che portiamo “molto frutto” (cf. Gv 15, 8) e che addirittura faremo cose più grandi di lui (cf. Gv 14, 12). Egli attende dunque da noi dedizione, passione nel lavoro che ci è dato da compiere, inventiva, audacia, intraprendenza. Ma senza affanno e agitazione, con quella pace che viene dal sapere che stiamo compiendo la volontà di Dio. La sola cosa che importa è dunque diventare discepoli di Gesù, lasciarlo vivere in noi, essere attenti ai suoi suggerimenti, alla sua voce sottile che ci orienta momento per momento. In questo modo sarà lui a guidarci in ogni nostra azione. Nel compiere le “molte cose” non saremo distratti e dispersi perché, seguendo le parole di Gesù, saremo mossi soltanto dall’amore. In tutte le occupazioni faremo sempre una cosa sola: amare.

Fabio Ciardi

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Parola di Vita Maggio 2015

Quando il Signore Dio, apparve a Mosè sul monte Sinai, proclamò la propria identità dicendosi: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34, 6). La Bibbia ebraica, per indicare la natura di questo amore di misericordia utilizza una parola (raḥămîm) che richiama il grembo materno, il luogo da cui proviene la vita. Facendosi conoscere come “misericordioso”, Dio mostra la premura che ha per ogni sua creatura, simile a quella di una mamma per il suo bambino: gli vuole bene, gli è vicino, lo protegge, ne ha cura. La Bibbia usa ancora un altro termine (ḥesed) per esprimere altri aspetti dell’amore-misericordia: fedeltà, benevolenza, bontà, solidarietà. Anche Maria, nel suo Magnificat canta la misericordia dell’Onnipotente che si stende di generazione in generazione (cf. Lc 1, 50). Gesù stesso ci ha parlato dell’amore di Dio, rivelandolo come un “Padre” vicino e attento a ogni nostra necessità, pronto a perdonare, a donare tutto ciò di cui abbiamo bisogno: «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5, 45) Il suo è davvero un amore “ricco” e “grande”, come lo definisce la lettera agli Efesini, da cui è tratta la parola di vita: “Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo” Quello di Paolo è quasi un grido di gioia che nasce dalla contemplazione dell’azione straordinaria che Dio ha compiuto nei nostri confronti: eravamo morti e ci ha fatto rivivere dandoci una vita nuova. La frase inizia con un “ma”, a indicare un contrasto con quanto Paolo aveva costatato precedentemente: la condizione tragica dell’umanità schiacciata da colpe e peccati, prigioniera di desideri egoistici e cattivi, sotto l’influsso delle forze del male, in aperta ribellione a Dio. In questa situazione essa avrebbe meritato lo scatenarsi della sua ira (cf. Ef 2, 1-3). Al contrario Dio, invece di castigare – ecco il grande stupore di Paolo – le ridà vita: non si lascia guidare dall’ira, ma dalla misericordia e dall’amore. Gesù aveva già fatto intuire questo agire di Dio quando aveva narrato la parabola del padre dei due figli, che accoglie a braccia aperte il più giovane sprofondato in una vita disumana. Lo stesso con la parabola del pastore buono che va in cerca della pecora smarrita e se la carica sulle spalle per riportarla a casa; o quella del buon samaritano che cura le ferite dell’uomo caduto nelle mani dei briganti (cf. Lc15, 11-32; 3-7; 10, 30-37). Dio, Padre misericordioso, simboleggiato nelle parabole, non soltanto ci ha perdonato, ma ci ha donato la vita stessa del suo figlio Gesù, ci ha donato la pienezza della vita divina. Da qui l’inno di gratitudine: “Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo” Questa parola di vita dovrebbe suscitare in noi la stessa gioia e gratitudine di Paolo e della prima comunità cristiana. Anche verso ognuno di noi Dio si mostra “ricco di misericordia” e “grande nell’amore”, pronto a perdonare e a ridarci fiducia. Non c’è situazione di peccato, di dolore, di solitudine, nella quale egli non si renda presente, non si metta accanto a noi per accompagnarci nel nostro cammino, non ci dia fiducia, la possibilità di risorgere e la forza per ricominciare sempre. Nel suo primo “Angelus”, il 17 marzo di due anni fa, Papa Francesco iniziò a parlare della misericordia di Dio, un tema che poi gli è divenuto abituale. In quella occasione disse: «Il volto di Dio è quello di un padre misericordioso, che sempre ha pazienza… ci comprende, ci attende, non si stanca di perdonarci…». Concluse quel primo breve saluto ricordando che: «Lui è il Padre amoroso che sempre perdona, che ha quel cuore di misericordia per tutti noi. E anche noi impariamo ad essere misericordiosi con tutti». Quest’ultima indicazione ci suggerisce un modo concreto per vivere la parola di vita. Se Dio con noi è ricco di misericordia e grande nell’amore, anche noi siamo chiamati ad essere misericordiosi verso gli altri. Se egli ama persone cattive, che gli sono nemiche, anche noi dovremmo imparare ad amare quanti non sono “amabili”, perfino i nemici. Non ci ha detto Gesù: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia»? (Mt 5, 7); non ci ha chiesto di essere «misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro»? (Lc 6, 36). Anche Paolo invitava le sue comunità, scelte e amate da Dio, a rivestirsi «di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza» (Col 3, 12). Se abbiamo creduto all’amore di Dio, anche noi potremo amare a nostra volta con quell’amore che si fa vicino a ogni situazione di dolore e di bisogno, che tutto scusa, che protegge, che sa prendersi cura. Vivendo così potremo essere testimoni dell’amore di Dio e aiutare quanti incontriamo a scoprire che anche verso di loro Dio è ricco di misericordia e grande nell’amore. Fabio Ciardi (altro…)

Parola di Vita Aprile 2015

Nella prima lettera alla comunità di Corinto, da cui è tratta la parola di vita di questo mese, Paolo deve difendersi dalla scarsa considerazione che alcuni cristiani mostrano nei suoi confronti. Essi mettevano in dubbio o negavano la sua identità di apostolo. Dopo averne rivendicato a pieno titolo questa qualifica per aver “veduto Gesù Cristo” (cf 9, 1), Paolo spiega il perché del suo comportamento umile e dimesso, al punto da rinunciare ad ogni tipo di compenso per il suo lavoro. Pur potendo far valere l’autorità e i diritti dell’apostolo, preferisce farsi “servo di tutti”. È questa la sua strategia evangelica. Si fa solidale con ogni categoria di persona, fino a diventare uno di loro, con lo scopo di portarvi la novità del Vangelo. Per cinque volte ripete “mi sono fatto” uno con l’altro: con i Giudei, per amore loro, si sottopone alla legge mosaica, pur ritenendosi non più vincolato da essa; con i non Giudei, che non seguono la legge di Mosè, anche lui vive come fosse senza la legge mosaica, mentre invece ha una legge esigente, Gesù stesso; con quelli che venivano definiti “deboli” – probabilmente cristiani scrupolosi, che si ponevano il problema se mangiare o meno le carni immolate agli idoli –, si fa anche lui debole, pur essendo “forte” e provando una grande libertà. In una parola, si fa “tutto a tutti”. Ogni volta ripete che agisce così per “guadagnare” ognuno a Cristo, per “salvare” ad ogni costo almeno qualcuno. Non si illude, non ha aspettative trionfaliste, sa bene che soltanto alcuni risponderanno al suo amore, nondimeno egli ama tutti e si mette al servizio di tutti secondo l’esempio del Signore, venuto «per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20, 28). Chi più di Gesù Cristo si è fatto uno con noi? Egli che era Dio, «annientò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2, 7). “Mi sono fatto tutto a tutti” Chiara Lubich ha fatto di questa parola uno dei capisaldi della sua “arte di amare”, sintetizzata nell’espressione “farsi uno”. Vi ha visto un’espressione della “diplomazia” della carità. «Quando uno piange – ha lasciato scritto –, dobbiamo piangere con lui. E se ride, godere con lui. E così è divisa la croce e portata da molte spalle, e moltiplicata la gioia e partecipata da molti cuori. […] Farsi uno col prossimo per amor di Gesù, coll’amore di Gesù, finché il prossimo, dolcemente ferito dall’amore di Dio in noi, vorrà farsi uno con noi, in un reciproco scambio di aiuti, di ideali, di progetti, di affetti. […] Questa è la diplomazia della carità, che ha della diplomazia ordinaria molte espressioni e manifestazioni, per cui dice non tutto quello che potrebbe dire, perché al fratello non piacerebbe e non sarebbe gradito a Dio; sa attendere, sa parlare, arrivare allo scopo. Divina diplomazia del Verbo che si fa carne per divinizzarci» . Con fine pedagogia Chiara individua anche gli ostacoli quotidiani che si frappongono al “farsi uno”: «A volte sono le distrazioni, altre volte il cattivo desiderio di dire precipitosamente la nostra idea, di dare inopportunamente il nostro consiglio. In altre occasioni siamo poco disposti a farci uno col prossimo perché riteniamo che non comprenda il nostro amore, o siamo frenati da altri giudizi al suo riguardo. In certi casi siamo impediti da un recondito interesse di conquistarlo alla nostra causa». Per questo «è proprio necessario tagliare o posporre tutto quanto riempie la nostra mente e il nostro cuore per farci uno con gli altri» . È dunque un amore continuo e infaticabile, perseverante e disinteressato, che si affida a sua volta all’amore più grande e potente di Dio. Sono indicazioni preziose, che potranno aiutarci a vivere la parola di vita in questo mese, a mettersi in sincero ascolto dell’altro, a capirlo dal di dentro, immedesimandosi in ciò che vive e che prova, condividendone preoccupazioni e gioie: “Mi sono fatto tutto a tutti” Non possiamo interpretare questo invito evangelico come una richiesta a rinunciare alle proprie convinzioni, quasi approvassimo in maniera acritica qualunque modo di agire dell’altro o non avessimo una nostra proposta di vita o un nostro pensiero. Se si è amato fino al punto da diventare l’altro, e se quanto si condivide è stato un dono d’amore ed ha creato un rapporto sincero, si può e si deve esprimere la propria idea, anche se forse potrà far male, rimanendo però sempre in atteggiamento di più profondo amore. Farsi uno non è segno di debolezza, non è ricerca di una convivenza tranquilla e pacifica, ma espressione di una persona libera che si pone a servizio; richiede coraggio e determinazione. È importante anche avere presente lo scopo del farsi uno. La frase di Paolo che vivremo questo mese continua, come abbiamo precedentemente accennato, con l’espressione: «… per salvare ad ogni costo qualcuno». Paolo giustifica il suo farsi tutto con il desiderio di portare alla salvezza. È una via per entrare nell’altro, per farvi emergere in pienezza il bene e la verità che già vi abitano, per bruciare eventuali errori e per deporvi il germe del Vangelo. È un compito che per l’Apostolo non conosce né limiti né scuse, al quale egli non può venir meno perché glielo ha affidato Dio stesso, e deve compierlo “ad ogni costo”, con quella inventiva di cui soltanto l’amore è capace. È questa intenzionalità a dare la motivazione ultima al nostro “farsi uno”. Anche la politica e il commercio sono interessati a farsi vicini alle persone, ad entrare nel loro pensiero, a coglierne le esigenze e i bisogni, ma vi è sempre la ricerca di un tornaconto. Invece «la diplomazia divina – direbbe ancora Chiara – ha questo di grande e di suo, forse di solo suo: che è mossa dal bene dell’altro ed è priva quindi d’ogni ombra d’egoismo» . “Farsi uno” dunque, per aiutare tutti nella crescita dell’amore e così contribuire a realizzare la fraternità universale, il sogno di Dio sull’umanità, il motivo per il quale Gesù ha dato la vita. Fabio Ciardi (altro…)

Marzo 2015

Durante il suo viaggio a nord della Galilea, nei villaggi attorno alla città di Cesarea di Filippo, Gesù domanda ai suoi discepoli cosa pensano di lui. Pietro, a nome di tutti, confessa che egli è il Cristo, il Messia atteso da secoli. A scanso di equivoci Gesù spiega chiaramente come intende attuare la propria missione. Libererà sì il suo popolo, ma in maniera inaspettata, pagando di persona: dovrà molto soffrire, essere riprovato, venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. Pietro non accetta questa visione del Messia – se lo immaginava, come tanti altri al suo tempo, come una persona che avrebbe agito con potenza e forza sconfiggendo i Romani e mettendo la nazione di Israele al suo posto giusto nel mondo – e rimprovera Gesù, che lo ammonisce a sua volta: «Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (cf 8, 31-33). Gesù si rimette in cammino, questa volta verso Gerusalemme, dove si compirà il suo destino di morte e risurrezione. Ora che i suoi discepoli sanno che andrà a morire, vorranno ancora seguirlo? Le condizioni che Gesù richiede sono chiare ed esigenti. Convoca la folla e i suoi discepoli attorno a sé e dice loro: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” Erano rimasti affascinati da lui, il Maestro, quando era passato sulle rive del lago, mentre gettavano le reti per la pesca, o al banco delle imposte. Senza esitazione avevano abbandonato barche, reti, banco, padre, casa, famiglia per corrergli dietro. Lo avevano visto compiere miracoli e ne avevano ascoltato le parole di sapienza. Fino a quel momento lo avevano seguito animati da gioia ed entusiasmo. Seguire Gesù era tuttavia qualcosa di ancor più impegnativo. Adesso appariva chiaro che significava condividerne appieno la vita e il destino: l’insuccesso e l’ostilità, perfino la morte, e quale morte! La più dolorosa, la più infamante, quella riservata agli assassini e ai più spietati delinquenti. Una morte che le Sacre Scritture definivano “maledetta” (cf Deut 21, 23). Il solo nome di “croce” metteva terrore, era quasi impronunciabile. È la prima volta che questa parola appare nel Vangelo. Chissà che impressione ha lasciato in quanti lo ascoltavano. Adesso che Gesù ha affermato chiaramente la propria identità, può mostrare con altrettanta chiarezza quella del suo discepolo. Se il Maestro è colui che ama il suo popolo fino a morire per esso, prendendo su di sé la croce, anche il discepolo, per essere tale, dovrà mettere da parte il proprio modo di pensare per condividere in tutto la via del Maestro, a cominciare dalla croce: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” Essere cristiani significa essere altri Cristo: avere «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù», il quale «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 5.8); essere crocifissi con Cristo, al punto da poter dire con Paolo: «non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20); non sapere altro «se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2, 2). È Gesù che continua a vivere, a morire, a risorgere in noi. È il desiderio e l’ambizione più grande del cristiano, quella che ha fatto i grandi santi: essere come il Maestro. Ma come seguire Gesù per diventare tali? Il primo passo è “rinnegare se stessi”, prendere le distanze dal proprio modo di pensare. Era il passo che Gesù aveva chiesto a Pietro quando lo rimproverava di pensare secondo gli uomini e non secondo Dio. Anche noi, come Pietro, a volte vogliamo affermare noi stessi in maniera egoistica, o almeno secondo i nostri criteri. Cerchiamo il successo facile e immediato, spianato da ogni difficoltà, guardiamo con invidia chi fa carriera, sogniamo di avere una famiglia unita e di costruire attorno a noi una società fraterna e una comunità cristiana senza doverle pagare a caro prezzo. Rinnegare se stessi significa entrare nel modo di pensare di Dio, quello che Gesù ci ha mostrato nel proprio modo di agire: la logica del chicco di grano che deve morire per portare frutto, del trovare più gioia nel dare che nel ricevere, dell’offrire la vita per amore, in una parola, del prendere su di sé la propria croce: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” La croce – quella di “ogni giorno”, come dice il Vangelo di Luca (9, 23) – può avere mille volti: una malattia, la perdita del lavoro, l’incapacità di gestire i problemi familiari o quelli professionali, il senso di fallimento davanti all’insuccesso nel creare rapporti autentici, il senso di impotenza davanti ai grandi conflitti mondiali, l’indignazione per i ricorrenti scandali nella nostra società… Non occorre cercarla, la croce, ci viene incontro da sé, forse proprio quando meno l’aspettiamo e nei modi che mai avremmo immaginato. L’invito di Gesù è di “prenderla”, senza subirla con rassegnazione come un male inevitabile, senza lasciare che ci cada addosso e ci schiacci, senza neppure sopportarla con fare stoico e distaccato. Accoglierla invece come condivisione della sua croce, come possibilità di essere discepoli anche in quella situazione e di vivere in comunione con lui anche in quel dolore, perché lui per primo ha condiviso la nostra croce. Quando infatti Gesù si è caricato della sua croce, con essa ha preso sulle spalle ogni nostra croce. In ogni dolore, qualunque volto esso abbia, possiamo dunque trovare Gesù che già lo ha fatto suo. Igino Giordani, vede in proposito l’inversione del ruolo di Simone di Cirene che porta la croce di Gesù: la croce «pesa di meno se Gesù ci fa da Cireneo». E pesa ancora di meno, continua, se la portiamo insieme: «Una croce portata da una creatura alla fine schiaccia; portata insieme da più creature con in mezzo Gesù, ovvero prendendo come Cireneo Gesù, si fa leggera: giogo soave. La scalata, fatta in cordata da molti, concordi, diviene una festa, mentre procura un’ascesa»[1]. Prendere la croce dunque per portarla con lui, sapendo che non siamo soli a portarla perché lui la porta con noi, è relazione, è appartenenza a Gesù, fino alla piena comunione con lui, fino a diventare altri lui. È così che si segue Gesù e si diventa veri discepoli. La croce sarà allora davvero per noi, come per Cristo, «potenza di Dio» (1 Cor 1, 18), via di risurrezione. In ogni debolezza troveremo la forza, in ogni buio la luce, in ogni morte la vita, perché troveremo Gesù. Fabio Ciardi [1] La divina avventura, Città Nuova, Roma 1966, p. 149ss. (altro…)

Febbraio 2015

Volendo recarsi a Roma e da lì proseguire per la Spagna, l’apostolo Paolo si fa precedere da una sua lettera alle comunità cristiane presenti in quella città. In esse, che presto testimonieranno con un innumerevole numero di martiri la sincera e profonda adesione al Vangelo, non mancano, come altrove, tensioni, incomprensioni, e perfino rivalità. I cristiani di Roma presentano infatti una variegata estrazione sociale, culturale e religiosa. Vi sono persone provenienti dal giudaismo, dal mondo ellenico e dall’antica religione romana, forse dallo stoicismo o da altri orientamenti filosofici. Esse portano con sé proprie tradizioni di pensiero e convinzioni etiche. Alcuni vengono definiti “deboli”, perché seguono usanze alimentari particolari, sono ad esempio vegetariani, o si attengono a calendari che indicano speciali giorni di digiuno; altri sono detti “forti”, perché, liberi da questi condizionamenti, non sono legati a tabù alimentari o a rituali particolari. A tutti Paolo rivolge un pressante invito: “Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio” Già precedentemente, nella lettera, era entrato nell’argomento rivolgendosi prima ai “forti”, per invitarli ad “accogliere” i “deboli”, “senza discuterne le opinioni”; poi ai “deboli” perché accolgano a loro volta i “forti” senza giudicarli, essendo stati loro stessi “accolti” da Dio. Paolo è infatti convinto che ognuno, pur nella diversità di opinioni e di usanze, agisce per amore del Signore. Non c’è dunque motivo di giudicare chi pensa diversamente, tanto meno di scandalizzarlo con un fare arrogante e con senso di superiorità. Quello invece che occorre avere di mira è il bene di tutti, la “edificazione vicendevole”, ossia la costruzione della comunità, la sua unità (cf 14, 1-23). Si tratta di applicare, anche in questo caso, la grande norma del vivere cristiano che Paolo aveva ricordato poco prima nella lettera: «Pienezza della Legge è la carità» (13, 10). Non comportandosi più «secondo carità» (14, 15), i cristiani di Roma erano venuti meno allo spirito di fraternità, che deve animare i membri di ogni comunità. L’apostolo propone come modello di accoglienza reciproca, quella di Gesù quando, nella sua morte, invece di piacere a se stesso, prese su di sé le nostre debolezze (cf 15, 1-3). Dall’alto della croce attirò tutti a sé, ed accolse l’ebreo Giovanni assieme al centurione romano, Maria Maddalena assieme al malfattore crocifisso con lui. “Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio”. Anche nelle nostre comunità cristiane, pur essendo tutti «amati da Dio e santi per chiamata» (1,7), non mancano, al pari di quelle di Roma, disaccordi e contrasti tra modi di vedere diversi e culture spesso distanti le une dalle altre. Spesso si contrappongono tradizionalisti e innovatori – per usare un linguaggio forse un po’ semplicistico ma subito comprensibile –, persone più aperte e altre più chiuse, interessate a un cristianesimo più sociale o più spirituale. Le diversità sono alimentate da convinzioni politiche e da estrazioni sociali differenti. Il fenomeno immigratorio attuale aggiunge alle nostre assemblee liturgiche e ai vari gruppi ecclesiali ulteriori componenti di diversificazione culturale e di provenienza geografica. Le stesse dinamiche possono scattare nei rapporti tra cristiani di Chiese diverse, ma anche in famiglia, negli ambienti di lavoro o in quelli politici. Si insinua allora la tentazione di giudicare chi non la pensa come noi e di ritenersi superiori, in una sterile contrapposizione ed esclusione reciproche. Il modello proposto da Paolo non è l’uniformismo che appiattisce, ma la comunione tra diversi che arricchisce. Non a caso due capitoli prima, nella stessa lettera, parla dell’unità del corpo e della diversità delle membra, così come della varietà dei carismi che arricchiscono e animano la comunità (cf 12, 3-13). Il modello non è, per usare un’immagine di papa Francesco, la sfera dove ogni punto si trova equidistante dal centro senza che vi siano differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro che ha superfici diverse tra loro e una composizione asimmetrica, dove tutte le parzialità mantengono la loro originalità. «Persino le persone che possono essere criticate per i loro errori, hanno qualcosa da apportare che non deve andare perduto. È l’unione dei popoli, che, nell’ordine universale, conservano la loro peculiarità; è la totalità delle persone in una società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti». “Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio”. La parola di vita è un invito pressante a riconoscere il positivo che c’è nell’altro, almeno per il fatto che Cristo ha dato la vita anche per quella persona che sarei portato a giudicare. È un invito ad ascoltare lasciando cadere i meccanismi difensivi, a rimanere aperti al cambiamento, ad accogliere le diversità con rispetto e amore, per giungere a formare una comunità plurale e insieme unita. Questa parola è stata scelta dalla Chiesa evangelica in Germania per essere vissuta dai suoi membri ed essere loro di luce per l’intero 2015. Condividerla, almeno in questo mese, tra membri di varie Chiese, vuol essere già un segno di accoglienza reciproca. Potremo così rendere gloria a Dio con un solo animo e una voce sola (15, 6), perché, come disse Chiara Lubich nella cattedrale riformata di St. Pierre a Ginevra: «Il tempo presente […] domanda a ciascuno di noi amore, domanda unità, comunione, solidarietà. E chiama anche le Chiese a ricomporre l’unità infranta da secoli. E’ questa la riforma delle riforme che il Cielo ci chiede. E’ il primo e necessario passo verso la fraternità universale con tutti gli uomini e le donne del mondo. Il mondo infatti crederà se noi saremo uniti». Fabio Ciardi (altro…)

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