Movimento dei Focolari

Chiara Lubich alla 1a Scuola Internazionale per imprenditori 5 aprile 2001

Ci troviamo qui per approfondire quell’ancor piccola, ma importante, realtà economica nata nel 1991 nel Movimento dei Focolari e che si è sviluppata finora quasi unicamente in esso, sotto il nome di “Economia di Comunione”. In questo convegno essa verrà studiata, approfondita, sviscerata secondo le varie competenze che loro, Signori imprenditori, professori di economia, studiosi, penseranno meglio. Per parte mia vorrei offrire qualche pensiero su quel tipico aspetto spirituale che le sta alla base, sin dal suo esordio a San Paolo in Brasile, e che l’ha animata, la anima, la sostiene e la dovrà sempre sostenere a garanzia della sua autenticità. Mi spinge a ciò un motivo non certo trascurabile: l’Economia di Comunione non è un’attività unicamente umana, frutto semplicemente di idee e di progetti di uomini seppur dotati. Essa è un’espressione del Movimento dei Focolari che è Opera di Dio. Opera di Dio, anche se Egli, Altissimo, ama usare quali suoi strumenti, per i suoi fini, uomini e donne di questo mondo. Ne consegue che, se l’Economia di Comunione è parte di un’Opera di Dio, è Opera di Dio essa stessa, almeno nel suo spirito e negli aspetti essenziali. E, se le cose stanno così, sarà ovvio e saggio conoscere e approfondire come è stata prevista dal Cielo e ispirata, e come qui in terra è stata da noi concepita e plasmata. In pratica, come è stata condotta da quel carisma d’unità, dono di Dio, che ha suscitato, sviluppato e continua a far progredire il nostro Movimento nella sua globalità. Ma quali e quanti i suggerimenti, le intuizioni, le ispirazioni anche, che hanno guidato fin qui l’Economia di Comunione? Mi sembra che ve ne siano di assai pregevoli e che non siano pochi. Permettano, Signori, che ora ne prenda in considerazione quattro, venuti in evidenza durante i dieci anni di vita dell’Economia di Comunione. Si tratta qui di riconsiderarli bene, insieme, per interpretarli esattamente ed attuarli con grande fedeltà. Essi riguardano: la finalità dell’Economia di Comunione e cioè lo scopo per cui è sorta; la “cultura del dare”, che le è tipica; gli “uomini nuovi”, che non possono mancare nel gestirla; le “scuole di formazione” per tali uomini e donne, assolutamente necessarie, che dobbiamo prevedere. Lo scopo per cui è sorta La finalità dell’Economia di Comunione è nascosta nel suo stesso nome: un’economia che ha a che fare con la comunione fra gli uomini e con le cose. Essendo, infatti, l’Economia di Comunione un frutto del nostro Ideale, questa sua finalità non può essere che una parziale espressione della finalità stessa del nostro Movimento e cioè: lavorare per l’unità e la fraternità di tutti gli uomini richiesta dalle parole-preghiera di Gesù al Padre: “Che tutti siano uno”, diventando così un cuor solo ed un’anima sola per la carità scambievole. Unità che si può realizzare con la nostra tipica “spiritualità dell’unità”. Ora per quanto riguarda le indicazioni, che possiamo aver avuto dall’Alto, vediamo che la finalità dell’Economia di Comunione è presente sin dal 1991, anno della sua nascita, in uno scritto dove si legge: “A gloria di Dio è nata perché torni a rivivere lo spirito e la prassi dei primi cristiani: ‘Erano un cuore solo e un’anima sola e fra loro non v’era indigente’.” (Cf At 4,32-34) E nel ’94 si ricalca: “Se noi attuiamo l’Economia di Comunione, col tempo, potremo vedere realizzata nella nostra Opera una meravigliosa pagina della Chiesa nascente: ‘La moltitudine (…) aveva un cuore solo ed un’anima sola (…), ogni cosa era fra loro in comune. (…) Nessuno fra loro era bisognoso’.” (At 4,32-34) Anzi è un anno questo, il 1994, in cui, affinché si abbia sempre di fronte l’importanza dell’Economia di Comunione e la sua finalità, si rievocano i primi suoi passi perché non perda di smalto. Riportiamo quelle parole perché ci siano di aiuto pure oggi: “Si misero a disposizione terreni e case; ci si spogliò di ciò che si aveva di più caro: i gioielli di famiglia, ad esempio; si pensò ai molti sistemi per orientare aziende ai fini dell’Economia di Comunione. Fu uno spettacolo d’amore non solo in Italia, ma nel mondo”. E un anno dopo, sempre per meglio attuare la finalità dell’Economia di Comunione e incoraggiare ad attuarla, si vuole far conoscere questi nostri fratelli e sorelle che ne beneficiarono: “Ma chi sono questi nostri fratelli? Li conosco e li ho visti alcuni in foto: sorridenti, dignitosi, fieri di esser figli di Dio e di quest’Opera. Non mancano di tutto, ma di qualcosa. Hanno bisogno, ad esempio, di togliersi dall’animo l’assillo che li opprime notte e giorno. Hanno necessità d’essere certi che loro e i loro figli avranno da mangiare; che la loro casetta, a volte una baracca, un giorno cambierà volto; che i bambini potranno continuare a studiare; che quella malattia, la cui cura costosa si rimanda sempre, potrà finalmente essere guarita; che si potrà trovare un posto di lavoro per il padre.  Sì, sono questi i nostri fratelli nel bisogno, che non di rado aiutano anche loro, in qualche modo, gli altri. Sono un tipo di Gesù ben preciso, che merita il nostro amore e che ci ripeterà un giorno: ‘Avevo fame, ero ignudo, ero senza casa o con la casa rovinata… e voi…’. Sappiamo cosa ci dirà”. Conosciamo quindi la finalità dell’Economia di Comunione. Ma come raggiungerla? La cultura del dare che le è tipica Nei nostri ambienti, nei nostri Convegni ne parliamo spesso e ci appaiono assai belle queste parole. Non sono forse l’antidoto a quella cultura dell’avere che oggi domina e proprio nell’economia? Certamente sì.  Ma, a volte, si può aver posto troppa fiducia nell’espressione: “cultura del dare”, dandole un’interpretazione un po’ semplicistica e riduttiva. Non sempre, infatti, con essa si vuol dire spogliarci di qualcosa per donarla. Queste parole in realtà significano quella tipica cultura che il nostro Movimento porta in sé ed irradia nel mondo: la cultura dell’amore. “Cultura dell’amore”, di quell’amore evangelico assai profondo e impegnativo, che è parola sintesi di tutta la Legge e i Profeti, quindi di tutta la Scrittura, per cui chi vuol possederlo non può esimersi dal vivere il Vangelo intero.  Ma come lo potrebbe fare? Lo dirò fra poco. Intanto notiamo che anche della “cultura del dare” si è scritto già nel 1991: “A differenza dell’economia consumista, basata su una cultura dell’avere, l’Economia di Comunione è l’economia del dare. Ciò può sembrare difficile, arduo, eroico. Ma non è così perché l’uomo fatto ad immagine di Dio che è Amore, trova la propria realizzazione proprio nell’amare, nel dare. Questa esigenza è nel più profondo del suo essere, credente o non credente che egli sia”. E si conclude: “E proprio in questa costatazione, suffragata dalla nostra esperienza, sta la speranza di una diffusione universale, domani, dell’Economia di Comunione”. Si prevede, dunque, che l’Economia di Comunione possa un giorno superare i confini del nostro Movimento. Riguardo poi sempre al dare, ma anche alle sue meravigliose conseguenze, troviamo scritto l’anno dopo, nel 1992: “Dare, dare, attuare il ‘dare’. Far sorgere, incrementare la cultura del dare. Dare quello che abbiamo in soprappiù o anche il necessario, se così ci suggerisce il cuore. Dare a chi non ha, sapendo che questo modo di impiegare le nostre cose rende un interesse smisurato, perché il nostro dare apre le mani di Dio ed Egli, nella sua Provvidenza, ci riempie sovrabbondantissimamente per poter dare ancora e molto e ricevere ancora e così poter venire incontro alle smisurate necessità di molti”. La causa dell’Economia di Comunione però non domanda solo l’amore ai bisognosi, ma verso chiunque perché così la spiritualità dell’unità esige. E perciò vuole che si amino tutti i soggetti dell’azienda. Si scrive, ad esempio: “Diamo sempre; diamo un sorriso, una comprensione, un perdono, un ascolto; diamo la nostra intelligenza, la nostra volontà, la nostra disponibilità; diamo le nostre esperienze, le capacità. Dare: sia questa la parola che non può darci tregua”. Nel ’95 si precisa il più profondo significato del dare:”Ma cos’è questa cultura del dare? E’ la cultura del Vangelo, è il Vangelo, perché noi il ‘dare’ l’abbiamo capito dal Vangelo. ‘Date – c’è scritto nel Vangelo – e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo’ (Lc 6,38). Ed è quello che sperimentiamo quotidianamente. Se tutti vivessero il Vangelo, i grandi problemi nel mondo non esisterebbero, perché il Padre del Cielo interverrebbe a realizzare la promessa di Gesù: ‘… vi sarà dato’.” Durante questi anni, poi, non ci sono mancati forti impulsi sul significato più semplice del dare, sul dare concretamente, specie da certi santi. “All’affamato – dice san Basilio – appartiene il pane che metti in serbo; all’uomo nudo il mantello che conservi nei tuoi bauli; agli indigenti il denaro che tieni nascosto. Commetti tante ingiustizie quante sono le persone a cui potresti dare tutto ciò”. E san Tommaso d’Aquino: “Quando i ricchi consumano per i loro fini personali il sovrappiù necessario alla sussistenza dei poveri, essi li derubano.” Ma, trovandoci oggi tra persone con responsabilità d’azienda, ricorderei un altro scritto: “Non basta un po’ di carità, qualche opera di misericordia, qualche piccolo superfluo di singole persone (per raggiungere il nostro scopo): occorre che aziende intere e imprese mettano in comune liberamente il loro utile”.  Nello scandire gli anni del decennio 1991-2001 è infine presente l’esigenza per l’Economia di Comunione di avere e formare “uomini nuovi”. Ma chi sono questi “uomini nuovi”? Sono, anzitutto, laici. Quei laici che oggi stanno vivendo un momento privilegiato. Conosciamo, penso, quelle sapienti parole dell’Antico Testamento che dicono: “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire (…). Un tempo per tacere e un tempo per parlare. (…) Egli (Dio) ha fatto bella ogni cosa a suo tempo.” (Qo 3,1-11) Ebbene: che tempo è quello che noi viviamo? Che tempo è per la Chiesa? Ce lo dice Giovanni Paolo II: “Nella Chiesa è scoccata oggi l’ora del laicato”. E, se così è, questo è il tempo nostro, vostro, dei laici. Ora, poiché il Signore conduce la grande storia del mondo e del cosmo e contemporaneamente la piccola storia nostra, di noi, sue creature, dobbiamo chiederci: come Egli vuole noi, laici, in questo momento? La risposta l’ha già data lo Spirito Santo in due modi: attraverso il Concilio Vaticano II e il sorgere dei nuovi Movimenti nella Chiesa. Il messaggio del Concilio è questo: i laici devono santificarsi là dove sono, nel mondo.     Quindi come operai, impiegati, maestri, politici, economisti, tranvieri, casalinghe e così via. E lì dove sono, devono cristianizzare (rinnovare col Vangelo) i vari ambiti del vivere umano: con la testimonianza e con la parola, perché lo Spirito Santo ha donato ai laici doni speciali proprio per questo. Lo possono fare proprio loro e specialmente loro. Col Vangelo, vivendo integralmente il Vangelo. Infatti, i Movimenti hanno questo di caratteristico: i loro membri sono chiamati alla radicalità della vita evangelica, a vivere il Vangelo con autenticità: una grande vocazione che eleva la loro dignità. Nel ’98, in qualche nostro scritto, si precisa che sono laici sì, ma laici speciali, chiamati a questo, forse, per la prima volta sul nostro pianeta. I concetti sono questi: “Quando consideriamo l’Economia di Comunione dobbiamo pensare ad uno dei fattori che la rendono così bella, viva, di esempio nel mondo: essa è suscitata e portata avanti da laici. Mi ricordo che un tempo si diceva che il laico è colui che deve soltanto imparare. Igino Giordani, perché laico, si sentiva, con ciò, un proletario nella Chiesa. Ora, dopo il Concilio Vaticano II, e ad opera dei nuovi Movimenti, come il nostro che ha avuto origine da laici, vediamo come il laico sia protagonista. Perché? Perché si sta scoprendo, con grande gratitudine a Dio, con meraviglia e non senza sorpresa, che specie certi laici di oggi hanno qualcosa di particolare. Essi non si accontentano di realizzarsi con un lavoro, con una carriera, o con la semplice vita di famiglia. Non basta più; non sono sazi, non si sentono se stessi, se non si dedicano anche esplicitamente all’umanità. Per cui quel decidere di impegnarsi nell’Economia di Comunione, anziché esser loro di peso, è di gioia, per aver trovato il modo di realizzarsi pienamente. Ed è un fatto che commuove: potrebbero mettersi in tasca quegli utili guadagnati, comprare la pelliccia alla signora, nuovi doni ai bambini, la macchina al figlio… Ma non lo fanno, vivono per un grande Ideale e sono coerenti. E si santificano non nonostante la politica, l’economia ecc., ma proprio nella vita politica, in quella economica ecc. Dio li benedica e dia loro il centuplo già in questa vita e poi la vita piena”. E come sono ancora questi “uomini nuovi”? Sono anzitutto persone di grande fede perché di profonda vita interiore. Lo si dice sempre nel ’98. “Se noi nel fare l’Economia di Comunione viviamo il Vangelo, cerchiamo il suo regno, perché ci mettiamo in contatto con i nostri operai, ma da Gesù a Gesù; con i clienti, ma da Gesù a Gesù; con i concorrenti, ma da Gesù a Gesù; se noi facciamo così l’Eterno Padre pensa a noi. E vediamo verificarsi nel mondo dell’Economia di Comunione piccoli o meno piccoli miracoli di grazia. Imprese di tre operai, ora con più di duecento … Industrie che stanno per chiudere ma, perché sperano ancora, dicono: ‘Tiriamo avanti fino a domani.’ E intanto arrivano tutti i mezzi necessari per superare la crisi. C’è un Altro, insomma, c’è un’altra cassa che non è quella che abbiamo nel nostro ufficio: è una cassa Celeste che si apre al momento opportuno”. Nel 1998 si aprono pure orizzonti nuovi. L’Economia di Comunione richiede nuovi impegni, e si vede come essa nobiliti coloro che vi lavorano e dia loro dignità. “Occorre che l’Economia di Comunione non si limiti ad esemplificazioni nel realizzare imprese nuove ispirate ad essa, con qualche commento di chi è più o meno esperto, ma occorre che diventi una scienza con la partecipazione di economisti preparati che sappiano delinearne teoria e pratica, confrontandola con altre correnti economiche, suscitando non solo tesi di laurea, ma scuole da cui molti possano attingere. Una scienza vera che dia dignità a chi deve dimostrarla con i fatti e significhi una vera ‘vocazione’ per chi vi si impegna in qualsiasi modo.” Scuole di formazione per imprenditori, economisti, e i vari componenti dell’azienda Per attuare un’Economia di Comunione occorrono, dunque, una finalità chiara, la “cultura del dare” e “uomini nuovi”. Ma gli uomini nuovi sono coloro che vivono in modo attualissimo il Vangelo, attuano l’amore reciproco, fanno propria, in pratica, la spiritualità dell’unità che porta Gesù in mezzo a noi. E qui non possiamo non esultare perché proprio la spiritualità dell’unità o di comunione è diventata nelle ultime settimane – come è stato autorevolmente detto: “La base su cui opera la Chiesa in questo momento”. Il Santo Padre ha scritto nella Novo millennio ineunte, al paragrafo 43: “Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione (…). Spiritualità della comunione significa (…) capacità di sentire il fratello (…) come ‘uno che mi appartiene’, per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire (…) e prendersi cura dei suoi bisogni (…). Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo (…) come dono di Dio: un “dono per me” (…). Spiritualità della comunione è infine saper ‘fare spazio’ al fratello, portando ‘i pesi gli uni degli altri’ (Gal 6,2)”. L’Economia di Comunione è stata possibile perché è nata in un contesto di cultura particolare, la cultura dell’amore che domanda comunione, unità e aiuta a pensare ad un mondo nuovo, a creare un popolo nuovo, con una cultura nuova, che ha in sé quei valori cui noi teniamo di più. E’ per questo che occorre una formazione adeguata a questa cultura, e urge far nascere delle scuole per imprenditori, economisti, professori e studenti d’economia, per ogni componente dell’azienda. La scuola per i politici che vogliono aderire al “Movimento dell’unità”, stimata e già funzionante una volta al mese vicino al Parlamento, può suggerirne lo schema. Si tratta di seguire un iter spirituale, un cammino, facendo proprie le sue varie tappe; iter proposto da un membro esperto del Movimento dei Focolari, da vivere poi nel quotidiano. Si tratta, inoltre, di vederne le implicazioni nel mondo economico e di offrire a conferma valide esperienze. Il tutto, che dovrebbe durare circa due ore, si conclude con commenti e proposte dei presenti. Una cosa “semplice e fattibile”, così diceva un parlamentare presente, così – lo speriamo – diranno gli imprenditori. Quest’anno va dedicato, in modo tutto particolare, proprio alle prime realizzazioni di scuole per l’Economia di Comunione. Il nostro carisma lo vuole. La realtà dell’Economia di Comunione nel mondo lo esige.   (altro…)

Discorso di Chiara Lubich agli indù e membri di altre religioni a Coimbatore

Gentili Signori e Signore, grazie di cuore per il dono che hanno voluto farmi, per il titolo che hanno voluto darmi: “Difensore della pace”. Grazie soprattutto a chi o a coloro che ne hanno avuto la prima idea. Nella terra di Gandhi, nella Patria della “non violenza” e della pace, non potevo aspettarmi nulla di più gradito. Quale il mio atteggiamento d’ora in poi? Onorerò questo loro riconoscimento impegnandomi ancora di più, finché Dio mi darà tempo, a ravvivare fra quante persone e gruppi incontrerò, in quante città e nazioni visiterò, l’unità, specifico carisma del mio Movimento, che è garanzia di pace. Dico la verità: sono venuta in India soprattutto col desiderio di ascoltare, di imparare da voi, per aprire un cordiale dialogo con voi, che considero miei fratelli e sorelle. So, infatti, quanto la vostra antichissima cultura e tradizione religiosa siano ricche e nello stesso tempo so quanto siete sensibili ai valori spirituali, ovunque essi si trovino nel mondo. Ma ora non mi è tanto possibile ascoltare. Lo farò in queste prossime settimane di soggiorno nel vostro grande e bel Paese, ricco di mistero. Sono stata invitata a narrarvi io stessa la mia esperienza spirituale. Essa coincide, in certo senso, con quella del Movimento dei Focolari che rappresento e di cui Dio mi ha fatto strumento assieme a molti altri. Accettatela come un dono cordiale e sincero. Ripercorrendo le tappe della storia di questo Movimento, che ha ormai 58 anni di vita, vorrei disegnare qualche tratto della sua spiritualità. Essa è definita spiritualità dell’unità, perché ha puntato sempre sull’unità con Dio, sull’unità fra le singole persone, sull’unità fra i gruppi, fra le città, fra i popoli, eliminando più discriminazioni possibile, e sognando una futura realtà che potrebbe essere espressa dalle parole: mondo più unito, mondo unito. E questo sogno e il Movimento che tende a realizzarlo (con quanti altri aspirano a questo ideale) non è opera semplicemente umana. Con le nostre autorità religiose, che hanno studiato a fondo il Movimento, noi per primi dobbiamo dire: questa è Opera di Dio. Ed è ciò che abbiamo costatato fin dai suoi albori. Tutto ha inizio nel 1943, a Trento, una tranquilla cittadina dell’Italia, in Europa. Sono insegnante e do anche lezioni private per aiutare la famiglia che attraversa un periodo di povertà. Ho 23 anni. Un giorno, mentre compio un’opera d’amore, un’inaspettata chiamata: “Donati a Dio”. Pochi giorni dopo, offro la mia vita al Signore per sempre. La mia felicità è incontenibile. Non mi balena in testa alcun progetto per la vita. Sono di Dio per sempre: questo mi basta. Esternamente anche quello è un giorno come gli altri. Ma la mia anima è invasa da una grazia particolare, una fiamma è accesa. E se la fiamma è accesa, non può non ardere, non può non comunicarsi. Pochi giorni dopo alcune giovani mi seguono. Intanto la seconda guerra mondiale imperversa e colpisce duramente. Anche a Trento rovine, macerie, morti. Con i bombardamenti scompaiono quelle cose o persone che formavano un po’ l’ideale dei nostri giovani cuori. Una amava la casa: è stata sinistrata.    Una seconda si preparava al matrimonio: il fidanzato non torna più dal fronte. Il mio ideale è lo studio: la guerra mi impedisce di frequentare l’università. Ogni avvenimento ci tocca profondamente. La lezione che Dio ci offre con le circostanze è chiara: tutto è vanità delle vanità. Tutto passa. Contemporaneamente Dio mette nel mio cuore una domanda: ma ci sarà un ideale che non muore? Un ideale che nessuna bomba può far crollare, a cui poter dare tutte noi stesse? Sì, c’è. E’ Dio. Decidiamo di far di Dio l’ideale della nostra vita. Dio, che in mezzo alla guerra, frutto dell’odio, ci si manifesta, come fosse la prima volta, per quello che è: Amore. Così lo presenta un nostro Libro sacro, il Nuovo Testamento, che dice: “Dio è amore” (1 Gv 4,8). Dio, dunque, è tutto per noi: Dio-Amore. Ed è stata questa una luce nuova nelle nostre anime. Sì, una grande novità per la nostra vita spirituale, così grande da operare in noi un profondo cambiamento. Mentre prima, infatti, pur cercando di essere brave cristiane vivevamo come orfane, come persone che avevano padre e madre, ma… solamente terreni. Poi, conosciuto in modo nuovo Dio Amore, ci siamo sentite, con più coscienza, figlie del Padre che è nei cieli. E’ stato come se si sviluppasse in noi una fede nuova. Non era soltanto la fede in Dio, ma proprio la fede nel suo amore. Per cui ci sembrava che niente potesse esprimere meglio la vita, che stavamo iniziando, che la frase della Scrittura: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1 Gv 4,16). E di questa fede nell’amore di Dio per noi, per ciascuno, per tutti, per l’umanità intera, è stata illuminata, da allora, tutta la nostra esistenza. E qui mi pare di avvertire una certa consonanza con la vostra fede. Un antico inno della vostra religione dice infatti: “Dio è il primo ad amarci, poiché fu lui a dare a noi l’amore e in noi lo accresce quando lo cerchiamo”. Perché si dice ancora: “Il Signore è per natura amore, (…) egli risiede nell’amore, la sua suprema realtà…”. Dio dunque ci amava! Egli era il creatore nostro. Egli, colui che ci sosteneva attimo per attimo; che conosceva tutto di noi. Il suo amore si nascondeva dietro tutte le circostanze della nostra e dell’altrui vita, quelle gioiose o indifferenti, e anche quelle dolorose. Avevamo, dunque, trovato l’ideale per cui vivere: Dio, Dio Amore. Ma come metterlo in pratica? Gesù dice: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio” (Mt 7,21). Niente, dunque, pietismo o sentimentalismo. Fare la volontà di Dio: questo importa, per noi, ma anche per voi, mi sembra. Non dice forse un vostro maestro: “Fare la volontà del Signore è un atto più grande che non cantare le sue lodi”? Ma chi ci avrebbe detto la volontà di Dio? Correvamo in fretta nei rifugi, ogniqualvolta suonava l’allarme, e non portavamo con noi se non un piccolo libro sacro: il Vangelo. In esso avremmo potuto trovare le richieste di Gesù, la volontà di Dio. L’aprivamo. Ed ecco la meraviglia: quelle parole, che avevamo sentito tante volte, s’illuminavano come se una luce s’accendesse sotto. Le capivamo ed una forza, pensiamo dello Spirito, ci spingeva a metterle in pratica. Leggevamo: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Mt 19,19). Il prossimo. Chi è il prossimo? Era lì accanto a noi. Era quella vecchietta che a mala pena, trascinandosi, raggiungeva ogni volta il rifugio. Occorreva amarla come sé: aiutarla, dunque, ogni volta, sorreggendola. Il prossimo era lì in quei cinque bambini spaventati accanto alla loro mamma. Occorreva prenderseli in braccio e riaccompagnarli a casa. Il prossimo era quell’infermo bloccato a casa, senza possibilità di ripararsi, bisognoso di cure. Occorreva avvicinarlo, procurargli delle medicine. Si leggeva nel Vangelo: “Qualunque cosa hai fatto al minimo dei miei fratelli, l’hai fatto a me” (cf Mt 25,40). Le persone attorno a noi, per le terribili circostanze, avevano fame, sete, erano ferite, senza vesti, senza casa. Cucinavamo allora pentoloni di minestra che si portavano a loro. A volte i poveri battevano alla porta della nostra casa e li invitavamo a sedersi accanto a noi: un povero e una di noi, un povero e una di noi. Il Vangelo assicurava: “Chiedete e vi sarà dato” (Mt 7,7). Si chiedeva a Dio per i poveri e si era ogni volta riempiti d’ogni bene: pane, latte in polvere, marmellata, legna, vestiario…, che si portava a chi ne aveva bisogno. Un episodio emblematico, che racconto sempre, è questo: un giorno un povero mi chiede un paio di scarpe n. 42. In chiesa ho chiesto: “Dammi, Signore, un paio di scarpe n. 42 per Te nel povero”. Uscita di chiesa una signorina mi porge un pacco. Lo apro: vi era un paio di scarpe da uomo n. 42. E questo è uno degli innumerevoli episodi che sono poi successi. “Date e vi sarà dato” (Lc 6,38), leggiamo un altro giorno nel Vangelo. Davamo. V’era un solo uovo in casa per tutte? Lo porgevamo al povero. Ed ecco in mattinata arrivare una dozzina di uova. E così con tante altre cose. E quando comunicavamo ad altri ciò che accadeva ogni giorno, molti, colpiti da questi fatti, volevano fare la stessa esperienza. Il Signore ci guidava così verso il cuore del suo Vangelo che è la legge dell’amore; a vivere cioè quella “Regola d’oro” che è comune a tutte le religioni: “Fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” (cf Lc 6,31), o, come dice il Mahabharáta: “Non fare agli altri ciò che a te farebbe male”. O come ha detto mirabilmente il Mahatma Gandhi: “Io e te siamo una sola cosa. Non posso ferirti senza fare del male a me stesso”. E l’amore cristiano che si viveva verso il prossimo era esigente. E’ un’arte e occorre conoscere quest’arte. Quest’amore va indirizzato a tutti. Non ammette accettazione di persone. Non considera questo amore se uno è simpatico o antipatico, bello o brutto, grande o piccolo, della mia patria o straniero. Tutti vanno amati. Anche Dio, il Padre celeste, ama tutti mandando pioggia e sole sui buoni e sui cattivi. Quest’amore ama per primo. Non vuole che si aspetti d’esser amati. L’amore ha sempre l’iniziativa. Quest’amore ama l’altro come se stesso. E ciò va preso alla lettera: occorre proprio vedere nell’altro un altro sé e fare all’altro quello che si farebbe a se stessi. E’ quell’amore che sa ‘farsi uno’ con la persona amata: che sa soffrire con chi soffre, godere con chi gode, portare i pesi altrui. E’ un amore, quindi, non di sole parole, ma di fatti concreti. Un amore indirizzato all’amico ma anche al nemico. E fa del bene a lui, prega per lui. Mi sembra che ci sia una bellissima immagine della tradizione indù per descrivere l’amore al nemico: “La scure taglia il legno di sandalo, mentre questo le fa dono della sua virtù, rendendola profumata”. Ma ora arriviamo al cuore della nostra esperienza spirituale fatta mentre la guerra continuava ed eravamo in grande pericolo. Si poteva veramente morire da un momento all’altro. Occorreva vivere bene, fare fino in fondo la volontà di Dio. Un giorno ho pensato: vi sarà una sua volontà a cui Dio tiene particolarmente? Vorremmo attuare proprio quella prima di morire. Nel Vangelo abbiamo trovato questa frase di Gesù: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 12-13). Era un comando che Egli diceva “nuovo” e “mio”. Quello che ci voleva per noi. Abbiamo capito allora che, se fino a quel momento il Vangelo ci aveva spinte ad amare gli altri, specie i poveri, ora dovevamo rivolgere l’attenzione anche l’una verso l’altra e amarci a vicenda, fino ad esser pronte a morire l’una per l’altra. Naturalmente, non sempre ci era chiesto di dare la vita per le compagne. Ma sotto ogni atto d’amore doveva esserci senz’altro questa disposizione. Lo abbiamo fatto. Anzi, lo abbiamo espresso in un patto. Ci siamo dette reciprocamente: “Io sono pronta a morire per te”. E l’altra: “Io per te”. “Io per te”. “Io per te”. Tutte per ciascuna. E la nostra vita da quel momento è cambiata. Ha fatto un balzo di qualità: una nuova pace, una nuova gioia, un desiderio ardente di far il bene, una luce ci invasero. Cos’era successo? Lo abbiamo capito quando abbiamo letto che Gesù aveva detto: “Dove due o più sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20). E noi eravamo proprio così: un piccolo gruppo unito nel suo amore. Dunque, Gesù era spiritualmente fra noi. Ciò che di nuovo avvertivamo nell’anima era effetto della sua presenza. Ci si impegnò a vivere tanto bene l’amore reciproco da aver sempre Gesù con noi. Ma ancora un episodio sintomatico: ci siamo radunate un giorno in una cantina, per ripararci dai pericoli della guerra, e abbiamo aperto il Vangelo a caso; e ci siamo trovate di fronte alla solenne preghiera di Gesù in cui chiede l’unità degli uomini con Dio e fra loro. Abbiamo cominciato a leggere e abbiamo avvertito la certezza che per quella pagina eravamo nate; abbiamo visto in essa la magna charta del nuovo Movimento nascente. Ma come realizzare l’unità? Come comprendere ed attuare questo Ideale? La chiave l’abbiamo trovata in quel momento della vita di Gesù che, per noi cristiani, è segno del più grande amore e cioè quando soffre sulla croce per tutti i peccati del mondo, fino a sentirsi abbandonato da Dio. Ma per questo, come per tutti i dolori della croce, assicura agli uomini la salvezza. E siamo stati spinti a vivere come Gesù, a imitarlo, raccogliendo su di noi – se così si può dire – le sofferenze dell’umanità. Da allora, abbiamo visto il nostro posto dovunque appariva il dolore: dove si incontravano divisioni e traumi, nelle famiglie separate, nello spacco fra le generazioni, nelle Chiese divise, nelle lotte religiose, nelle tensioni fra chi crede e chi non crede. E, amando Gesù abbandonato nel dolore, vedevamo ricomporsi l’unità e rinascere la speranza, la gioia, la pace. Per questo, nel 1960, quando sulla nostra via noi, cristiani cattolici, abbiamo incontrato cristiani di altre Chiese, non siamo rimasti chiusi in noi stessi. Ci siamo potuti aprire a loro, costruendo tutta quella unità che era possibile. Sono crollate le barriere che erano state innalzate fra noi e loro nei secoli; sono sfumate molte incomprensioni; abbiamo deciso soprattutto di vivere insieme questi punti della nostra spiritualità come fratelli che si comprendono e si amano, e con essi tutto ciò che avevamo in comune nella nostra fede cristiana. Così fedeli luterani, anglicani, ortodossi, riformati, metodisti, battisti e altri, anno dopo anno, hanno ingrossato le fila di questa pacifica rivoluzione d’amore. Sono ora di 360 Chiese i cristiani presenti nel nostro Movimento. Ma il piano di Dio non si è fermato qui. Noi non lo conoscevamo, lo sapeva Dio che attraverso le più varie circostanze ce lo ha rivelato tempo dopo tempo. Così è stato per il dialogo con le altre religioni. Molte sono state, fin dagli inizi del Movimento, le occasioni di incontro con fratelli e sorelle di altre fedi religiose. Ma la prima forte esperienza è stata per me quella che ho vissuto più di 30 anni fa in una sperduta valle dell’Africa camerunense. Eravamo a contatto con i bangwa, una tribù fortemente radicata nella religione tradizionale, quasi sterminata dalla mortalità infantile, che avevamo iniziato a debellare. Un giorno, il loro capo, il Fon, con i notabili e le migliaia di membri del suo popolo si sono radunati per una festa, in una grande radura in mezzo alla foresta, per donarci i loro canti e le loro danze. Ebbene, è stato lì che ho avuto la forte impressione che Dio, come un immenso sole, abbracciasse tutti noi, noi e loro con il suo amore. Per la prima volta nella mia vita ho intuito che avremmo avuto a che fare anche con persone di tradizione non cristiana. L’altra grande esperienza è stata quando, nel 1977, in occasione del Premio Templeton per il progresso della religione, dovetti portarmi a Londra. In quella circostanza ho parlato nella Guildhall, ad un nutrito pubblico, nel quale si notavano persone delle più varie religioni: ebrei, musulmani, buddisti, indù, sikhs… Anche lì, mentre parlavo, ho avuto l’impressione che Dio, come un sole, avvolgesse tutta quella gente, ed ho avuto la certezza di una sua particolare presenza. Ho capito che dovevamo prendere contatto con tutti, come se Dio lo volesse. E così sono cominciati i nostri dialoghi d’amore fraterno, di vita e di preghiera con i fedeli di altre religioni. E poiché il Movimento si andava diffondendo in tutto il mondo, si è preso tale atteggiamento in ogni punto della terra. Eravamo coscienti che, dove c’era una sinagoga, una moschea, un tempio, lì era il nostro posto. Eravamo, infatti, e siamo convinti d’essere chiamati a concorrere a costruire la fraternità universale con tutti loro, poggiandoci soprattutto su quei principi, quei valori che abbiamo in comune. In questi ultimi anni si sono moltiplicati gli incontri, gli scambi di esperienze, con arricchimento reciproco. Sono ora circa 30.000 i fedeli di altre religioni in rapporto con il Movimento. Oltre gli indù, buddisti giapponesi e tailandesi; ebrei, d’Israele, Argentina, Europa; musulmani dell’Asia, dell’Africa e degli USA, e molti altri. Pure moltissime persone di altre culture, anche senza un riferimento religioso, s’impegnano nel Movimento per la salvaguardia dei valori comuni: la solidarietà, la pace, i diritti umani, la libertà. E gli effetti di questa spiritualità vissuta da milioni di persone sono molti. Se volessimo condensarli ora in poche parole, potremmo dire che i suoi frutti sono: anzitutto, cambiamenti radicali di vita, ritorni a Dio e sulla via del bene. Il formarsi così di cittadini che vivono in profondità e con rinnovata coscienza tutti i loro doveri. Per iniziare dalle persone più giovani, ma speranza del domani, gli adolescenti non sono più persone immature. Si comportano da protagonisti, nella vita religiosa e civile, sanno affrontare il dolore; amano essere “diversi” perché, pur nel mondo, non assorbono ciò che di negativo il mondo può offrire. I giovani puntano in alto; si preparano seriamente alla vita futura; mettono in atto microrealizzazioni d’ogni genere per la salvaguardia dei veri valori. Famiglie disgregate dalle separazioni e dai divorzi si ricompongono, adottano bambini… L’intero mondo sociale è investito da questa spiritualità comunitaria: da quello dell’economia e del lavoro a quello della politica, della sanità, dell’educazione, dell’arte e così via. E, per concludere, una osservazione: poiché è l’unità la nota che riassume tutto il nostro Ideale, osservando il Movimento, nei suoi effetti, si può dire che è come un film che cammina a ritroso. Quali drammatiche divisioni, quali impoverimenti, in quali crisi è arrivato il mondo immerso nel materialismo, nel consumismo, nell’indifferentismo! Qui il mondo va avanti tornando in certo modo indietro e cioè a quell’unità della famiglia umana, così come Dio l’aveva pensata quando l’ha creata. Che Dio, Padre di tutti, voglia sempre fecondare le nostre fatiche, con quelle di quanti sono impegnati a fini eccelsi quanto i nostri. “E che si possa – come ha detto Giovanni Paolo II all’ONU, il 5 ottobre 1995, nel cinquantesimo della sua fondazione – costruire (…) per il prossimo millennio una civiltà degna della persona umana… “Possiamo e dobbiamo farlo! – ha continuato – E, facendolo, potremo renderci conto che le lacrime del secolo passato hanno preparato il terreno ad una nuova primavera dello spirito umano”. Ed è quello che tutti vogliamo sperare. Anzi perché ciò si realizzi, alzo a Dio una preghiera della vostra tradizione che faccio mia, e imploro il gran dono dell’unità, che solo da Dio possiamo ottenere: “O Dio, tu sei per noi padre, madre, fratello, amico, maestro, ricchezza. Tu sei tutto, tu il solo rifugio, aiutaci a vivere in te, in te solo. O Amore infinito, dona ai nostri cuori aridi un po’ del tuo amore. O Signore, rendi pura l’anima dei tuoi servi, che essi non vedano le ombre di alcun essere. O Padre pieno d’amore, trasporta i tuoi servi fuori dei brevi limiti personali. Il nostro io prenda il volo nell’infinito cielo, come goccia nell’immenso oceano. O Signore, dimora in noi, le tue parole, i tuoi pensieri, le tue azioni siano le nostre. Tu sei la pace immutabile, tu sei l’Eterno, l’Incomprensibile, l’infinita Gioia.” (07-01-2001) (altro…)

Settembre 1999

Gesù con queste sue parole risponde a Pietro che, dopo aver ascoltato cose meravigliose dalla sua bocca, gli ha posto questa domanda: “Signore, quante volte dovrò perdonare a mio fratello, se pecca contro di me? fino a sette volte?”. E Gesù: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”. Pietro, probabilmente, sotto l’influenza della predicazione del Maestro, aveva pensato di lanciarsi, buono e generoso com’era, nella sua nuova linea, facendo qualcosa di eccezionale: arrivando a perdonare fino a sette volte. Nel giudaismo infatti si ammetteva un perdono di due, tre volte, al massimo quattro. Ma Gesù rispondendo: “… fino a settanta volte sette”, dice che per lui il perdono deve essere illimitato: occorre perdonare sempre.

«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette».

Questa Parola fa ricordare il canto biblico di Lamech, un discendente di Adamo: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette”. Così inizia il dilagare dell’odio nei rapporti fra gli uomini del mondo: ingrossa come un fiume in piena. A questo dilagare del male, Gesù oppone il perdono senza limite, incondizionato, capace di rompere il cerchio della violenza. Il perdono è l’unica soluzione per arginare il disordine e aprire all’umanità un futuro che non sia l’autodistruzione.

«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette».

Perdonare. Perdonare sempre. Il perdono non è dimenticanza che spesso significa non voler guardare in faccia la realtà. Il perdono non è debolezza, e cioè non tener conto di un torto per paura del più forte che l’ha commesso. Il perdono non consiste nell’affermare senza importanza ciò che è grave, o bene ciò che è male.  Il perdono non è indifferenza. Il perdono è un atto di volontà e di lucidità, quindi di libertà, che consiste nell’accogliere il fratello e la sorella così com’è, nonostante il male che ci ha fatto, come Dio accoglie noi peccatori, nonostante i nostri difetti. Il perdono consiste nel non rispondere all’offesa con l’offesa, ma nel fare quanto Paolo dice: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male”. Il perdono consiste nell’aprire a chi ti fa del torto la possibilità d’un nuovo rapporto con te, la possibilità quindi per lui e per te di ricominciare la vita, d’aver un avvenire in cui il male non abbia l’ultima parola.

«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette».

Come si farà allora a vivere questa Parola? Pietro aveva chiesto a Gesù: “Quante volte dovrò perdonare a mio fratello?”; “… a mio fratello”. E Gesù, rispondendo, aveva di mira, dunque, soprattutto i rapporti fra cristiani, fra membri della stessa comunità. E’ dunque prima di tutto con gli altri fratelli e sorelle nella fede che bisogna comportarsi così: in famiglia, sul lavoro, a scuola o nella comunità di cui si fa parte. Sappiamo quanto spesso si vuole compensare con un atto, con una parola corrispondente, l’offesa subita. Si sa come per diversità di carattere, o per nervosismo, o per altre cause, le mancanze di amore sono frequenti fra persone che vivono insieme. Ebbene, occorre ricordare che solo un atteggiamento di perdono, sempre rinnovato, può mantenere la pace e l’unità tra fratelli. Ci sarà sempre la tendenza a pensare ai difetti delle sorelle e dei fratelli, a ricordarsi del loro passato, a volerli diversi da come sono… Occorre far l’abitudine a vederli con occhio nuovo e nuovi loro stessi, accettandoli sempre, subito e fino in fondo, anche se non si pentono. Si dirà: “Ma ciò è difficile”. Si capisce. Ma qui è il bello del cristianesimo. Non per nulla siamo alla sequela di Cristo che, sulla croce, ha chiesto perdono al Padre per coloro che gli avevano dato la morte, ed è risorto. Coraggio. Iniziamo una vita così, che ci assicura una pace mai provata e tanta gioia sconosciuta. Chiara Lubich   (altro…)